Solitudine di famiglia in un interno: “Si nota all’imbrunire” di Lucia Calamaro
Si nota all’imbrunire inizia all’”alba”, sotto la luce abbondante di un mattino primaverile. C’è un cielo terso e denso, sul palco della Sala Leo de Berardinis del Teatro Arena del Sole di Bologna, dove lo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro – da domani 3 al 12 maggio al Teatro Bellini di Napoli – è andato in scena nell’ambito del progetto “Focus Calamaro: un teatro di voci e persone”, curato da Gerardo Guccini e organizzato dal Centro La Soffitta in collaborazione con ERT Fondazione. Un cielo che trascolora verso l’alto, dipinto da fari blu sul fondale bianco. Più in qua, verso la platea, un interno racchiuso da pareti semitrasparenti. Tutto sembra fatto di aria e di luce, sospeso in un’atmosfera indefinita tra il mediterraneo e il glaciale, tra l’astratto e il concreto. Così tangibile e sfuggente, lo spazio è sapientemente modulato. Come una variazione di densità fra strato e strato di aria. Come un quadro di Hopper. O come l’ossigeno freddo di un mattino d’aprile che pizzica nelle narici. Sia come sia, quello che vediamo vibra come un ricordo, più che come un immaginario. Forse è qualcosa di simile allo spazio stesso del tempo passato.
Silvio Orlando siede su una panchina in maglie ampie di ferro, che lo sostiene, ma non trattiene; che sembra, come ogni altra cosa sulla scena, sul punto di decomporsi nella luce. L’ultimo lavoro di Lucia Calamaro si apre dunque con un colpo d’occhio, una seduzione visiva, un segno da contemplare che prepara lo spettatore a ricevere la parola anche con gli occhi. Immessi in un moto di commozione aurorale, percepiamo una cura geniale dell’inizio; intuiamo il calore processuale della penna e della mente creatrice, una condizione di necessità del dire che abbraccerà ogni parola. La figura di Silvio Orlando sembra perfettamente rilanciare l’alchimia scenografica e i suoi contrasti. Il suo corpo solido, la sua connaturata maschera irenica, l’inconfondibile nenia delle fricative. Un’epifania familiare anche, certo, in virtù dei molti ruoli cinematografici e televisivi che ne hanno reso riconoscibilissimo lo stile. Un personaggio che non potrebbe avere in scena altro nome se non il proprio. Consuetudine cui, d’altro canto, Lucia Calamaro ci ha abituato nei suoi lavori, e che si ripeterà anche in questo.
Silvio, dunque, è un uomo fisicamente ed esistenzialmente seduto. Vedovo da dieci anni, conduce la sua esistenza in accidioso transito fra un giaciglio e una poltrona, ritirato nella casa di campagna di un “paese spopolato”. Un vivere che si è estraniato dalla volontà di vita, rigonfio di letture e di un pensiero che può solo autoprodursi in spirali a perdere, lasciando il piano dell’azione invariato. «Tutti i finali dei miei pensieri sono in una parte della memoria che non conosco» dice Silvio, che poi cita Flaiano, Caproni, Hemingway, Plath come i pochi compagni delle sue giornate indistinte. Pare di sentirlo discutere, in prova, con la regista e drammaturga, pare vederli condividere i loro riferimenti letterari e decidere quali evocare una volta lì, sulla scena. Silvio apre una raccolta di Giorgio Caproni, e un origami a molla vola fuori dalle pagine. «Piace tanto alla regista», chiosa ironico. Ridendo, ci sediamo così, insieme, al tavolo immaginario dell’esistenza: noi spettatori, Orlando e Calamaro, in una miracolosa prossimità. È a distanza di una confessione intima, infatti, che la drammaturgia si snoda. Eppure si mette a tema, incessantemente, la paradossale estraneità che permea ogni rapporto. Anche quello filiale, anche quello fraterno. Arrivano così in scena, alla spicciolata, svegliandosi a turno, Roberto Nobile, fratello di Silvio; Alice Redini e Maria Laura Rondanini, le figlie; e Riccardo Goretti, il figlio. Convenuti per la messa commemorativa della madre, il loro apparire dal sonno inscrive nello spazio scenico un’aura pirandelliana, quel modo dei personaggi di manifestarsi come fantasmi pieni d’ironia, tutt’intenti a trovare, goffamente, un luogo-per-essere. Ma la loro dimensione si rivela poi più “beckettiana”. Ciascuno scava la propria identità e il rapporto con gli altri in funzione di una vena d’assurdo portata all’estremo, sino al ritrovamento di una maschera, alla reiterazione di un tic, alla costruzione di personaggi “a tesi”. La giornata famigliare si offrirà come un banco di prova per la solitudine di Silvio, provata dal tamburellante dialogo con ciascuno dei personaggi.
“Si nota all’imbrunire”. Foto di Maria Laura Antonelli
Con sapienza compositiva degna dei crescendo rossiniani, i dialoghi iniziano a due, poi crescono per esplodere in gazzarra, fino allo scioglimento, puntualmente comico, che permette a Silvio di riconquistare un attimo di solitudine, a riprova di quanto l’autoesilio sia preferibile al cimento famigliare. Tuttavia, Silvio è un personaggio dolce, la sua remissività non è mai aggressiva, il muro dell’incomunicabilità è sigillato dalla malta troppo umana dell’ironia. Cede dunque, spesso, fino al proposito di tornare in città. Quanto a loro, i quattro buffi personaggi intorno, sembrano rimandare ciascuno ad un lato del carattere di Silvio. C’è Maria Laura, la figlia nevrotica, imprigionata in una mania di controllo che la costringe a lavare e piegare asciugamani senza posa. C’è Alice, l’aspirante poetessa fallita, che non riesce a smettere di copiare poesie altrui e spacciarle per proprie. C’è Riccardo, furbo, persino brillante, ma indolente e condannato a eterna precarietà. C’è Roberto, dai tratti di demenza senile e sprazzi di lirismo nostalgico, che infarcisce i discorsi con citazioni, preferibilmente di autori francesi. Fuggendo da loro, Silvio fugge da se stesso. «Il mio paese interiore è decisamente privo di abitanti» dice, manifestando quello scambio continuo fra interiorità ed esteriorità che abita nella scrittura della Calamaro, tra forma e materia della parola come segno verticale in grado di correre tra un universo fisico ed uno tout-court spirituale. Una verticale di vertigine e dolore, una commovente dinamica di emersione del profondo che materializza l’invisibile: «se ti sforzi, esiste tutto» è l’epitome di una vita che segue il pensiero della solitudine del soggetto fino a fare degli altri fantasmi del proprio io. E tali poi si rivelano i famigliari, di nuovo pirandellianamente, come ombre del passato: convenuti sì, ma in sogno.
Infine la solitudine s’inverte di segno: non più ricercata fieramente, a paventare un’aura quasi eroica, ma inflitta dal rifiuto, dallo stigma della vecchiaia, dall’ineluttabile abbandono della figura genitoriale. Il rifiuto di Silvio della verticalità acquista il segno clinico della depressione, un lento infiltrarsi della morte sotto lo stipite della vecchiaia, sia pure col balsamo vero di una salvifica ironia. L’inversione raddoppia a monte il lirismo delle parole, che ripercorriamo tutte alla luce del disvelamento, e ciascuna riappare velata di pianto. Ma ci si accorge che la drammaturgia non ha fatto altro che tracciare con sottile coerenza questo passaggio: con l’affiorare di piccole crepe nel parlato, segnali minimi di soliloquio nella forma dialogica, spesso aforistici secondo lo stile inconfondibile della drammaturga. Ecco cosa si nota all’imbrunire: la tragedia connaturata del linguaggio che l’anima lasciata sola vede. In una parola, poesia.
[Immagine di copertina: foto di Maria Laura Antonelli]
SI NOTA ALL’IMBRUNIRE (SOLITUDINE DA PAESE SPOPOLATO)
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Silvio Orlando, Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi Ornella e Marina Campanale
luci Umile Vainieri
produzione Cardellino in collaborazione con Napoli Teatro Festival
in coproduzione con Teatro Stabile dell’Umbria