Contro una società patriarcale, il teatro: intervista alla regista e direttrice artistica Veronica Cruciani
Veronica Cruciani ricopre l’incarico di direttrice artistica del Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma dal 2007. All’inizio del suo insediamento si è trovata a confrontarsi con le tipiche difficoltà dei quartieri di periferia, e a cercare strategie attraverso cui incrinare il pensiero dominante di un valore non fondamentale della cultura – e dunque del teatro – nella vita sociale ed economica delle persone. A questo scopo più di dieci anni fa cominciò a coinvolgere il pubblico di ogni età e provenienza sociale in attività di formazione che passavano attraverso il teatro.
Dal 2016 si avvale della collaborazione di Ascanio Celestini, Federica Migliotti per il teatro ragazzi, Valentina Marini per la danza, Giorgio Andriani per l’organizzazione, Antonino Pirillo per la comunicazione e promozione, i tecnici Raffaella Vitiello e Antonio Belardi, e Dario Alberti e Dalila D’Amico. Il lavoro di costruzione del rapporto con la cittadinanza, andando al di là del semplice recarsi a vedere lo spettacolo, è riuscito con il tempo a incontrare l’esigenza di un pubblico che aveva bisogno, forse più di altri, di mettere radici e di stringere una relazione umana con chi produce cultura nel quartiere, anche se non solo per il quartiere.
Come s’innesta un pensiero? Come si ribalta un pregiudizio? A queste domande risponde un’altra domanda, quella con cui si identifica la Stagione 2018-’19, “Cosa può un teatro (?)”. Gli spettacoli della Stagione analizzano e lanciano una visione della realtà in un quartiere dove si riconoscono comunque, in mezzo alle difficoltà, un fermento e un associazionismo molto forti. La visione di Veronica Cruciani parte, dunque, dalla conoscenza diretta del territorio per dialogare con i suoi abitanti – ma ci racconta di essere nata in un’altra periferia, quella di Roma Nord – e lo fa attivando anche alcune collaborazioni interessanti: per esempio, proprio di fronte al teatro ha da poco aperto una palestra popolare, il Red Lab, messa a nuovo da un gruppo di ragazzi che l’hanno tinteggiata e ristrutturata con le loro mani per far avvicinare le persone del quartiere grazie all’attività sportiva. Con il Red Lab, il Teatro Biblioteca Quarticciolo ha collaborato di recente nell’ambito della sezione di teatro ragazzi del Romaeuropa Festival, REF Kids. Al Red Lab, infatti, il gruppo Dynamis ha tenuto con adolescenti laboratori di preparazione alla performance Y – La variabile del calcio, andata in scena l’11 novembre al teatro. L’attenzione verso determinate categorie sociali resta centrale in un modo o nell’altro all’interno della visione del teatro di Veronica Cruciani, che vede nel riflesso tra ciò che avviene dentro e fuori dalla sala teatrale, una possibilità di cambiamento e di sviluppo sociale, per il quartiere e oltre.
A questo proposito, al Teatro Biblioteca Quarticciolo avrà luogo dal 20 al 25 novembre la rassegna che celebra la Giornata contro la violenza sulle donne, tra teatro, cinema e incontri, con Michela Murgia, Saverio La Ruina, Ascanio Celestini e Isabella Ferrari; una panoramica sul delicato universo femminile costretto a subire soprusi e violenze, pregiudizi culturali e limitazioni di una società ancora oggi, purtroppo, tristemente patriarcale. Ne abbiamo parlato con Veronica Cruciani.
Questo luogo quasi non sembra una periferia a guardare il programma degli spettacoli.
Il pubblico del nostro teatro proviene da tutta Roma e dal Lazio. Programmiamo, infatti, prime regionali o spettacoli che arrivano per la prima volta a Roma come, per esempio, è accaduto con Soul music di Oscar De Summa o Sorry, boys di Marta Cuscunà [in scena il 14 e il 15 dicembre, ndr], ma anche Il figlio della tempesta di Armando Punzo [progetto speciale che celebra i trent’anni della Compagnia della Fortezza rielaborandone l’intero universo iconografico e sonoro; in scena il 28 febbraio e il 1 marzo, ndr]. Il pubblico che abita in questo quartiere costituisce mediamente circa il 30% degli spettatori, ma bisogna considerare che quando abbiamo iniziato a lavorare qui c’era una grande diffidenza verso il teatro. Andare a teatro viene considerata l’ultima delle necessità dalle persone non abbienti. In questi anni ho cercato di veicolare il messaggio che, viceversa, la creatività rappresenta uno dei modi più efficaci per uscire dalla crisi, perché aiuta a superare le difficoltà e a rilanciarsi. Siamo così riusciti a costruire una buona fiducia con le persone del quartiere, e se siamo qui è perché a loro ci siamo affezionati. D’altro canto, tantissimi artisti amano venire con i loro spettacoli al Teatro Biblioteca Quarticciolo proprio perché questo luogo ha un progetto con una forte riconoscibilità. Non ci interessa fare il “teatro di quartiere”, ma fare delle attività che sono “nel” quartiere, sempre tenendo alto il livello della sperimentazione e della qualità. Per noi è molto importante non abbassare mai l’asticella e puntare sempre più in alto, cercando di spostare i nostri stessi limiti. La domanda con cui s’intitola la Stagione di quest’anno, “Cosa può un teatro (?)”, me la sono posta io in primis: che cosa può un teatro di centocinquantasei posti, in periferia, rispetto a quello che succede in Italia e nel mondo? Non solo da direttrice artistica, ma anche come artista, posso dire che il mio teatro è politico, che è qualcosa che non c’entra con i partiti e che, piuttosto, ragiona sui temi del nostro presente.
Rispetto al valore politico che Lei attribuisce al teatro, in che modo si inserisce questa rassegna che celebra la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne?
Tre sono le rassegne che facciamo quest’anno: una per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’altra per la Giornata della Memoria e la rassegna ‘under 35’. Non è la prima volta che propongo spettacoli che riguardano il femminile: l’anno scorso abbiamo ospitato due spettacoli sulle “resistenze femminili” di Marta Cuscunà e con lo spettacolo di quest’anno chiudiamo la trilogia. Si tratta di temi che ci interessano molto. Un altro aspetto verso cui quest’anno abbiamo riservato attenzione è il poter avere un tempo condiviso con il pubblico che permetterà agli artisti di coltivare uno spazio di riflessione sulle proprie pratiche. Ad aprile infatti si interromperà la Stagione e a maggio ci sarà un Mese di fuoco in cui ogni giorno un artista diverso proveniente dai diversi ambiti (cinema, letteratura, editoria, teatro, arti visive, danza) sarà chiamato a interrogarsi sul linguaggio: tra questi, per esempio, ci sarà Chiara Guidi a condurre un laboratorio, sulla lettura in coro di componimenti della poetessa tedesca Nelly Sachs partendo dalla tecnica molecolare da lei messa a punto durante il suo percorso di ricerca vocale.
Nel Mese di fuoco non ci saranno spettacoli, ma solo “pensiero”. Si cercherà di creare un nuovo vocabolario, con delle nuove parole. E le parole generano realtà. Ad esempio, per tornare alla rassegna che facciamo in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’uso della parola ‘femminicidio’ non è casuale, è un fatto culturale: si riferisce a una donna che, all’interno di un rapporto, subisce un dominio da parte dell’uomo che rivendica il suo possesso su di lei. Il motivo per cui reputo molto importante fare questa rassegna e insistere sul tema è che c’è una specificità in questa morte. E il femminicidio è solo l’apice di vite che sono mortificanti per la mancanza di diritti, per la dipendenza economica, per la violenza psicologica, per la limitazione della libertà personale. Basti pensare che in Italia e nel mondo subisce violenza mediamente una donna su tre dai quindici anni in su. Il 53% delle donne dell’Unione Europea afferma di evitare determinati luoghi o situazioni per paura di essere aggredite. Il fatto culturale va affrontato: nominare le cose in un un modo specifico permette alle cose di essere riconosciute come tali. Se il governo inizia a usare la parola “immigrato” per indicare solo le persone che “rubano il lavoro” o “stuprano le donne” automaticamente l’immigrato viene identificato con quel tipo di persona. Bisogna invece far capire che la realtà è molto più complessa e che ci sono altre narrazioni. Queste permettono di non essere schiacciati dalle narrazioni dominanti, unidirezionali; di cambiare i rapporti tra le persone, e quindi di cambiare la realtà stessa. Apre la rassegna Michela Murgia, con una conferenza-spettacolo intitolata Donne e periferie; il mondo delle donne sta molto a cuore. Michela Murgia è stata protagonista di un mio spettacolo, Quasi Grazia, su Grazia Deledda, la scrittrice che aveva la quarta elementare e che all’inizio del Novecento, all’età di ventinove anni, partì dalla Sardegna per realizzare un sogno che le costò ricevere le offese più allucinanti. Ai tempi la donna poteva essere nubile, madre, figlia. Non scrittrice. Ed è un pregiudizio, purtroppo, ancora oggi esistente.
In relazione alla Sua carriera personale come ha vissuto questo aspetto, dell’essere un’artista donna?
Il percorso artistico che sto facendo mi ha illuminata. Esiste un sistema patriarcale che noi donne assorbiamo con tutta una serie di limitazioni, anche senza accorgercene. Mi è capitato di incontrare donne più maschiliste degli stessi uomini, perché avevano radicate dentro di sé quelle convinzioni. Lo spettacolo su Grazia Deledda è stato un lavoro importante da questo punto di vista. Un altro lavoro di importanza analoga sarà quello che farò a novembre 2019 su Barbablù, da un testo della drammaturga inglese Hattie Naylor, tradotto da Monica Capuani; un monologo che parla di femminicidio, che verrà co-prodotto dal Teatro di Roma. Sarà, quindi, una voce maschile a parlare di queste donne: donne passive, che accettano la violenza perché culturalmente è stato trasmesso un certo modello culturale. Mi è spesso capitato di incontrare donne persino di questo stesso quartiere che giustificassero azioni di violenza dei loro partner affermando che erano frutto di gelosia, e dunque di amore. Questo è il motivo per cui diventa fondamentale parlare di questo problema anche a teatro. Ho fatto l’attrice per molti anni, ho scoperto poi il desiderio di lavorare su temi che interessassero a me. A ventotto anni mi sono imbattuta ne Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e mi sono innamorata di questo testo. Chiesi ad Ascanio Celestini di scrivere un’Antigone per me a partire dall’Antigone de La serata a Colono di Elsa Morante. Parlai con diversi registi per mettere in scena questo spettacolo; decisi poi di curare io stessa la regia di un monologo dove ero in scena, chiedendo l’aiuto di Arturo Cirillo, perché quando interpreti per la prima volta un monologo di cui fai anche la regia hai bisogno comunque di un occhio esterno che ti guardi. Nacque così la mia prima regia, Le nozze di Antigone. I primi spettacoli me li sono auto-prodotti, chiedevo prestiti alla banca, perché non ho una famiglia ricca, sono figlia di un infermiere e di una casalinga, ma volevo a tutti i costi fare teatro e ho studiato e lavorato molto per riuscire a fare questo lavoro. Facevo laboratori, mettevo da parte i soldi, facevo la distribuzione degli spettacoli, l’organizzatrice. Per tanto tempo sono andata avanti in questo modo, che è stato molto faticoso. Ci è voluta una determinazione di ferro, e per fortuna i miei spettacoli hanno avuto successo. Negli ultimi anni vengo prodotta da realtà importanti, dagli Stabili, ma continuo anche a produrre spettacoli autonomamente, come l’Accabadora interpretata da Anna della Rosa. È inutile far finta che il fatto di essere una donna non abbia inciso. Il dato stesso che ci siano poche registe donne non è dovuto al fatto che le registe donne non abbiano talento. Ci sono poche donne dappertutto: nelle discussioni politiche, negli articoli di giornale, nei dibattiti in televisione. Ogni volta che una donna ricopre un incarico di potere si fa fatica ad accettarla. È come se una donna dovesse dimostrare qualcosa in più e la sola bravura non bastasse. Per raggiungere un obiettivo deve metterci il doppio degli sforzi e impiegare il triplo del tempo. E se vogliamo uscire da certi stereotipi come quello di “moglie” e “madre” rischiamo sempre di pagare a caro prezzo la nostra libertà.
Veniamo agli spettacoli programmati all’interno della rassegna.
Ho voluto dedicare una personale a Saverio La Ruina, perché i suoi spettacoli ruotano attorno al tema della libertà femminile: Dissonorata, La borto e Polvere. La donna in questi testi è vittima dell’egoismo maschile, prigioniera di una serie di gabbie comportamentali e sociali che sono ancora più accentuate al Sud. È un attore che stimo molto anche per la sua capacità di trattare il dolore e la condizione del genere femminile senza grandi travestimenti. Mi sembrava interessante portare sul nostro palco tutti e tre gli spettacoli. In più, ospitiamo il film Il giorno perfetto di Ferzan Özpetek con Isabella Ferrari, che Ascanio Celestini poi intervisterà in un incontro pubblico.
Ha mai pensato a una rassegna “al” femminile, che abbia come obiettivo quello di diffondere il lavoro di donne che fanno teatro ricoprendo il ruolo di registe?
Mi piace meno l’idea di una rassegna al femminile, e preferisco riservare un’attenzione alla bravura a prescindere dal genere. Tuttavia, all’interno della programmazione, e conoscendo le difficoltà che le donne incontrano nell’affermarsi, nutro per le loro, essendo donna anch’io, una sensibilità particolare e un occhio di riguardo.
Un’ultima domanda. Quote rosa “sì” o quote rosa “no”?
Per me la risposta è “quote rosa sì”. In una società civile dove ci sono uguali diritti le quote rosa non avrebbero senso, ma in un mondo in cui la donna viene pagata di meno anche se più preparata e brava nel lavoro, in cui le disparità di potere e di ogni tipo sono evidenti, sono necessarie, altrimenti non ci sarebbe spazio per le donne nei luoghi di potere, perché non gli viene lasciato. Certo, mi auguro e sogno un mondo in cui non ce ne sarà più bisogno. Un mondo in cui andranno avanti i migliori, indifferentemente dal genere.
(Immagine di copertina: Veronica Cruciani, foto di Andrea Ciccalè)