Arti Performative

Simona Bertozzi/Nexus – Prometeo: contemplazione + il dono

Renata Savo

Per la decima edizione del festival Teatri di Vetro, Simona Bertozzi trasforma in danza il senso profondo e creativo del mito di Prometeo nella mitologia e per l’umanità


 

Prometeo, l’eroe ribelle della mitologia classica, colui che ha fatto dono del fuoco all’umanità e scatenato una grande rivoluzione con una piccola fiamma, ha proiettato l’uomo verso il progresso, lasciando entrare luce e calore nella sua fragile esistenza. Questo suo dono è stato letto anche metafora del pensiero: luce come ragione, capacità di guardare oltre le apparenze e i limiti prestabiliti dalla natura; come superamento della finitudine, dell’essere umano e del giorno; luce che dà forma alle cose, e quindi possibilità di identificazione con ciò che è oscuro o imperscrutabile. Un artista cosa fa se non lavorare su questo confine malleabile, esplorare le possibilità di una materia che prima era informe e buia per liberare da quella il corpo dell’opera con i suoi simboli e strati di significato, sublimando la materia nella creazione, dando vita a una palingenesi. Sembra un percorso a tentoni, non a caso, quello di Simona Bertozzi e della compagnia Nexus, sul palcoscenico del Teatro Vascello dove il dittico sul Prometeo (contemplazione + il dono) è andato in scena per la rassegna romana Teatri di Vetro. L’appuntamento tardo-estivo, giunto al suo decimo anno di attività, ogni volta meriterebbe spazio e considerazione più forti, mentre invece si trova a coincidere con altre rassegne, festival ed eventi seguiti dallo stesso target di pubblico: il che di per sé potrebbe non voler dire nulla, ma quando essi sono ubicati in zone più accessibili con i mezzi di trasporto urbano o centrali, la location diventa nella capitale, purtroppo, un problema – o meglio, lo diventano i romani – di cui purtroppo si avverte il peso in un giorno di pioggia (cioè un giorno “infernale”, in cui si è fortemente demotivati a uscire fuori dai propri gusci domestici).

Qui, in questo luogo indifeso che è il teatro, tra i silenziosi respiri di una scena vuota – una sorta di limbo immerso in un tenue bagliore – Bertozzi indaga la materia scenica come chi sa scolpirla nel marmo: con movimenti ampi e segmentati la scompone in moduli irregolari per ricomporla nel non finito, lasciandola poi a raffreddare per rimaneggiarla, immortalarla nel suo divenire forma. In questo processo di composizione e disvelamento, nell’espressione di una sempre maggiore consapevolezza del corpo, la gestualità predilige l’asimmetria, pronuncia la ricerca di una bellezza diversa, nutrita di inquietudine e portatrice di scompiglio. La prima parte è una contemplazione, dice il sottotitolo, alludendo forse all’azione congiunta di visione e creazione, alla possibilità di esistenza, di definizione formale. Ci si sente come davanti a un enigma da risolvere, dove proprio quella tensione alla ricerca sviluppa un’altra modalità di osservazione e di ascolto: una modalità “aumentata”, perché l’immagine, il movimento, non coincidono con il silenzio o il suono – da quando esso comincia a manifestarsi – non c’è corrispondenza biunivoca, ma insieme i due codici producono comunque un soggetto e un paesaggio sonoro. In un attimo, abbandoniamo, allora, il pensiero dell’eroe mortale, continuando però ad avvertire noi stessi come parte di quell’umanità, personaggi in absentia del mito.

La forma, la creazione, si modella e si sottrae: il soggetto originario si sdoppia. In scena si unisce a Bertozzi la giovane Stefania Tansini. I due corpi si direbbero omografi, a ben vedere, però, comunicano differenza: indossano un costume identico che veicola l’immagine di figure femminili collocate in un’epoca indistinta, ma il gesto, la successione di movimenti sono un elogio della primordialità, del caos da cui tutto il mondo ha avuto origine (il livello di definizione formale della scrittura coreografica appare per questo più basso); il mito narra, infatti, che Prometeo avesse riposto tutti i mali dell’umanità dentro un vaso, aperto poi da Pandora, sposa di Epimeteo, fratello del titano, per volere di Zeus incollerito.

Sorprendentemente, alle performer si aggiunge un danzatore, diversamente abile, con un arto superiore più corto dell’altro. È un corpo trasfigurato dalla danza, quindi, sacro, divino. Sul mito di Prometeo si narra anche che il dono del fuoco agli uomini sia stato merito di una scintilla rubata al dio Efesto, deforme e zoppo: il corpo del danzatore Aristide Rontini, però, tutt’altro che deforme, è titanico nella sua potenza espressiva, nella straordinaria capacità di fare del suo limite fisico un’occasione creativa. La coreografia di Bertozzi, così, fino alla fine, pilota lo sguardo dello spettatore verso il pieno godimento dell’armonia dell’universo creato, di cui ci ha fatto dono travasando la danza da un vaso di Pandora all’altro, cioè dalla scena all’umanità, verso la compattezza di un insieme sì scuotente e memorabile.


Dettagli

  • Titolo originale: Prometeo: contemplazione / Prometeo: il dono

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