Saverio La Ruina // “Via del Popolo”
In scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, lo scorso 5 ottobre, nell’ambito della II edizione della rassegna Calabria Teatro con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nicola Morelli, lo spettacolo vincitore del Premio Ubu 2023 per il Miglior nuovo testo italiano, Via del Popolo di e con Saverio Ruina. La produzione Scena Verticale è stata inserita nel progetto finanziato con risorse PSC – Piano per lo sviluppo e la coesione 06.02.02 (Distribuzione Teatrale) della Regione Calabria e realizzato dall’Associazione teatrale “I Vacantusi” di Lamezia Terme.
Il palcoscenico è disseminato di lumini. Al centro un grande orologio molle, alla maniera di Dalì, nel personale design di Riccardo De Leo. La Ruina entra dalla quinta di destra, con il suo incedere dimesso e quella voce che è solo sua. Biascicata e cantilenante, fatta di parole masticate, senza respiro funzionale, senza vincolo alla ferrea logica della punteggiatura. È in dialogo virtuale con Tonino, suo amico di infanzia, e il cimitero è il loro spazio emozionale in cui amano giocare a “Tu ricordasi a questu?”. Un esercizio della memoria in cui ogni frase ha valore a sé poiché è frammento di vita esposta in una sera e in un accadere ove il passato incombe. Le foto dei defunti vengono sfiorate con una carezza o coperte da uno sputo, per vendicarsi della cattiveria che hanno avuto in vita. Come quella del cameriere di Fioravanti, presente a tutti i matrimoni dove loro – bambini – si imbucavano per poter mangiare le paste alla crema perché, in un paese dove non c’erano pasticcerie “paste e felicità erano la stessa cosa”. E così, passando da un morto all’altro arrivano alla foto del padre di Saverio. Un percorso à rebours che diventa pretesto per indagare il suo rapporto con la figura paterna misurandone il respiro, tentandone il cuore. Confrontarsi con essa e comprenderla postula scritture irregolari, paure non componibili, frammenti di senso mentre il racconto, attraverso il filtro dell’umorismo, esalta il sapore della tenerezza, ma offre anche una riflessione sul tempo: tempo passato e perduto, tempo ricordato e tempo inesistente, tempo circolare, spazializzato, interiore; reificato in quel cronometro, un Omega degli anni ’70, dono dello zio Nicola, con il quale Saverio si illude di essere il “padrone del tempo”; tempo veloce per l’uomo del presente che impiega solo due minuti e cinque secondi a percorrere Via del Popolo, tempo lento per l’uomo del passato che ne impiegava trenta. Qui lo spettatore deve imparare a respirare con altro ritmo, deve tornare indietro forse nella sua infanzia, forse nell’adolescenza, forse in quell’interstizio temporale che condensa l’esistenza in un dato momento, storia, luogo, azione. E della fanciullezza e dell’adolescenza La Ruina ci fa partecipi restituendoci lo sguardo delle cose guardate.
Il racconto è, dunque, un segmento crono-spaziale che appartiene al passato, un punto di fuga da cui si dipartono e si intrecciano i ricordi, laddove il lacerto di tempo biografico che delimita la narrazione è situato in un contesto storico-sociale di più ampio e corale respiro. Sono gli anni ’60, una famiglia di pastori che abita sul Monte Pollino decide di “emigrare” in città per dare un futuro ai propri figli. Undici fratelli, otto partono per Rio de Janeiro e tre rimangono, due di loro si trasferiscono a Castrovillari. Qui, firmando una montagna di cambiali, acquistano un bar che porta proprio il nome della metropoli brasiliana: il Bar Rio, in Via Roma, una delle strade principali della città mentre le note di Lookin’ Out My Back Door dei Creedence Clearwater Revival sottolineano il passaggio dello status sociale dei due fratelli da pastori a camerieri. In Via del Popolo, una delle traverse di Via Roma, la famiglia costruisce la propria casa con una grande terrazza dalla quale il piccolo Saverio diventa osservatore attento della varia umanità che popola la via. Il suo sguardo di fanciullo ci restituisce la vita di una comunità operosa, riuscendo a cogliere dal di dentro pensieri e affetti dei suoi protagonisti: l’uomo che vende i fichi d’India; Pino, proprietario dell’omonimo ristorante, che ama bere kambusa; Vittorio, il proiezionista del cinema Ariston che, nelle sue quotidiane operazioni di taglia e incolla delle pellicole, ricorda il proiezionista Alfredo di “Nuovo Cinema Paradiso”; Giannino l’elettricista, capace di riparare i televisori con un colpo secco della mano; mastu Giuvannu, il sarto zoppo, perennemente vestito a lutto in segno di rispetto per la morte della merciaia Ida di cui era segretamente innamorato; Tonino, il macellaio; le sorelle Silvana e Maria Giannetto così belle che al loro passaggio tutti si affacciavano per ammirarle. E ancora, la bottega di generi alimentari di zu Franciscu attaccata alla falegnameria di mastu Ninu; lo studio del dottor Ladislao Schwarz; la forgia di mastu Nicola…
L’andamento delle istanze personali segue il flusso della storia e degli eventi senza, tuttavia, annullarvisi e offrendo loro una cifratura struggente e appassionata. La Grande Storia, con i fermenti politici degli anni ’70, le contestazioni, i cortei arriva fino al cuore di una cittadina interna di una regione periferica come la Calabria e ne intride gli umori, così come la grande arte del Living Theatre che vi porta il suo rivoluzionario The Love Play. Poi i volti scompaiono, i luoghi si spopolano e resta solo il rumore dei ricordi.
Via del Popolo è il personale Bildungsroman di Saverio La Ruina con il suo “quaderno del cinema” sul quale scrive il nome degli attori – quasi tutti americani – e i titoli dei film che hanno interpretato mentre le canzoni del juke box diventano la colonna sonora della sua vita: dai Beatles ai Dik Dik, dai New Trolls ai Santo California fino a Whiter Shade of Pale dei Procol Harum… È il suo viaggio di formazione esemplificato dalla metafora di quella strada che, dislocata ad altre latitudini può appartenere a ciascuno perché l’infanzia mette radici là dove si è stati felici. È nostos geminante la medesima nostalgia che riecheggia nei versi di Pessoa per quei “Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo, eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita”. È una lunga lettera d’amore al padre, a tutti i padri, ai quali si chiede di farsi ponte tra passato e futuro e di traghettare verso il domani quei figli offrendo, a supporto della loro fragilità, le proprie antiche certezze.