Santarcangelo Festival, uno spazio di riflessione che si rinnova da quasi mezzo secolo
Il 15 luglio scorso si è concluso, con dieci giorni di programmazione, 11.324 biglietti venduti, 200 e oltre 250 artisti coinvolti, la 48^ edizione di Santarcangelo dei Teatri, rinominato Santarcangelo Festival sotto la direzione artistica di Eva Neklyaeva in collaborazione con Lisa Gilardino. Un mito vicino al mezzo secolo di vita che si spera continuerà a essere uno spazio di riflessione attraverso performance nuove e innovative, italiane e straniere. Nato nel 1971, compirà infatti cinquant’anni nel 2020; già durante le scorse edizioni hanno preso vita numerose iniziative di accompagnamento verso l’importante compleanno, come la realizzazione di un libro a cura di Roberta Ferraresi, che vedrà alternare la ricerca d’archivio alla raccolta di storie tramite interviste. «Come costruire questa storia di sincronia e d’eccezione, di ascolto rispetto alle tendenze teatrali e artistiche, ma anche più ampiamente socio-politico-culturali, e di trasformazione?» è la domanda che sta alla base del libro e che guiderà la curatrice verso la stesura finale del volume.
Durante i tre giorni a cui chi scrive ha potuto assistere, 6,7 e 8 luglio, il programma dell’edizione, intitolata “Cuore in gola”, è stato densissimo, al punto da ritrovarsi a correre in macchina da un luogo a un altro per non perdere nessuna delle performance in programma. Tutto è stato estremamente concentrato e non è stato semplice organizzare ogni spostamento. Pensiamo a uno spettatore che vorrebbe anche avere l’opportunità di rilassarsi tra uno spettacolo e l’altro, invece di rincorrere sempre quello successivo: è un aspetto al quale ci si abitua facilmente, ma sul quale varrebbe la pena ragionare. Tra uno spettacolo e l’altro c’è bisogno di tempo per assimilare, per riflettere, per pensare, magari sorseggiando una birra, un bicchiere di vino. Il tempo e la calma anche qui, come in molte altre occasioni festivaliere e come nella vita quotidiana, sono dei lussi, mentre il teatro, almeno, dovrebbe riuscire a permetterseli. Esempio di questa calma auspicabile è la performance di Alessandro Sciarroni Don’t be frightened of turning the page (se ne parlava tra le nostre pagine anche qui). In una palestra di una scuola illuminata a giorno con i soli rumori dei neon ad accompagnarlo, il performer entra in tenuta da prova, calzettoni grossi e lunghi, niente scarpe, pantaloncini corti e maglietta. Cammina avanti e indietro solcando la diagonale del quadrato disegnato dal pubblico accorciando a ogni andata la distanza percorsa finché il moto rettilineo non si trasforma in rotazione senza un inizio e una fine. Quaranta minuti di moto circolare che intrattengono il pubblico attraverso uno stato di leggerezza e di pace senza mai una sbavatura. Un movimento ciclico, continuo, capace di trasportare chi osserva in una sorta di volo, di levitazione ipnotica e cullante.
All’interno di un’aula di un’altra scuola si può assistere alla performance di un gruppo di bambini e ragazzi dai 7 ai 13 anni coordinati dalla coreografa greca Panagiota Kallimani: Arrêt sur image è il titolo dell’opera in cui attraverso movimenti lenti e molto semplici i giovanissimi performer mettono in scena una partitura coreografica capace di stupire chi vi assiste. Dentro una stanza buia, piccole luci proteggono i bambini seduti ciascuno al proprio banco, diventando ombre appena visibili in viso, ma pienamente riconoscibili nei loro movimenti. Gesti lenti e, in un primo momento, privi di interesse, forse troppo semplici, ma nel tempo creano un’armonia elettrizzante capace di meravigliare anche grazie all’iniziale scetticismo provocato. Si tratta di movimenti tipici dei bambini in una classe: chi si sdraia sul banco, chi si addormenta, chi alza la mano. Sono rallentati e accompagnati da una musica che loro stessi hanno scelto. Il contrasto tra le azioni naturalmente rapide dei bambini incapaci di stare seduti e la riproposizione, lenta ma nuovamente naturale, delle stesse riesce a creare una coreografia in grado di farci interrogare sulla frenesia che circonda la nostra società.
Una società spesso incapace di guardare oltre la punta del proprio naso, di fermarsi a ragionare sulle sofferenze altrui e chiusa dietro a un muro di cartapesta, è quella chiamata in causa in As Far As My Fingertips Take Me di Tania El Khoury, performance per un solo spettatore alla volta. Un rifugiato e un autoctono separati da un muro hanno come unico contatto le proprie dita e la storia raccontata attraverso degli auricolari. È la storia di un ragazzo che deve scappare dalla Siria e dalle bombe che devastano la sua casa; non è facile lasciarsi alle spalle il paese natio, ma diviene necessario se si tiene alla propria vita. Il performer Basel Zaraa disegna sul braccio la storia rendendola indelebile, fino alla conclusione in cui viene data l’opportunità di lavare via il disegno. Non sono in molti quelli che scelgono di farlo, per rispetto a una realtà di dolore che appartiene a tutti coloro che hanno superato confini e discriminazioni.
La storia del Festival, come si evince dalla domanda con cui Roberta Ferraresi ha aperto l’8 luglio il talk intitolato “Costruire una storia”, è fatta «di sincronia e d’eccezione, di ascolto rispetto alle tendenze teatrali e artistiche, ma anche più ampiamente socio-politico-culturali […]». Eppure non mancano le annuali polemiche, spesso prive fondamento. Quest’anno è toccato a Multitud di Tamara Cubas, che ha fatto gridare l’opposizione allo scandalo, per la presenza di corpi nudi in scena nella cornice all’aperto di Piazza Ganganelli, prima, e Piazza Marconi e Sferisterio poi. In realtà di scandaloso o pornografico in quei corpi nudi non c’è stato assolutamente nulla, tanto che alla prima replica in pochissimi hanno lasciato anticipatamente lo spettacolo e la causa di questo scarso distacco è probabilmente da ricercarsi nella lunga durata piuttosto che nelle “scandalose” nudità dei suoi attori.
Forse qui si è già dato troppo spazio all’inesistente scandalo, ed è meglio soffermarsi sullo spettacolo. Multitud è nato da un workshop che ha coinvolto settanta persone di ogni età e formazione. Ci sono studenti del DAMS di Bologna e abitanti della cittadina romagnola, uomini e donne, anziani e ragazzi chiamati ad autorappresentarsi uscendo dalla gabbia dei condizionamenti culturali ed entrando in una dimensione naturale (intesa come ‘stato di natura’ descritto da Hobbes). La performance s’interroga sulle possibilità e le modalità di una moltitudine di organizzarsi per raggiungere un obiettivo comune; e all’interno è presente una risposta che non è e non può essere univoca, perché una massa potrà organizzarsi anche in assenza di regole, ma non sarà mai una condizione duratura. Un flusso di eventi rappresentato da una corsa circolare mette in scena ordine e mutamento. La capacità auto-regolamentatrice, in assenza di regole preesistenti, è però messa a repentaglio da un sassolino nel mare che inverte la propria corsa e crea disordine. Un disordine che affascina perché capace di mostrare palesemente i lati positivi e negativi di una moltitudine che a oggi ci appaiono imbrigliati da regole coercitive. Tamara Cubas, con questo lavoro, sembra mettere in guardia la società dall’incapacità di autoregolarsi e allo stesso tempo la necessità di andare oltre le briglie imposte dallo Stato Moderno teorizzato nel Leviatano di Hobbes.
In tre giorni, dalla calma espressa dal moto circolare di Sciarroni siamo passati ad assaporare la frenesia di una moltitudine in divenire, le capacità performative di un gruppo di bambini, la pacatezza usata nel racconto di una migrazione. Come altri pochi festival di arti performative in Italia, quello di Santarcangelo, all’alba del cinquantennio di vita, pur trasformandosi e rinnovandosi di pari passo con i linguaggi della scena contemporanea, continua a racchiudere dentro di sé una varietà molto ampia di forme e storie che invitano lo spettatore a una riflessione profonda, partecipata e condivisa dei temi che sono alla base delle strutture sociali e politiche della realtà in cui viviamo.
(Immagine di copertina: Moltitud di Tamara Cubas. Foto di Rafael Arenas)