Santarcangelo Festival 2019: la danza fra tradimento e tradizione
di Andrea Zangari
Memoria e tradizione, una diade che fonda il concetto di cittadinanza. Un concetto che, a sua volta, festival ormai consolidati come Santarcangelo Festival giunto alla XLIX edizione possono espandere o rigenerare, suturando una crisi che dall’io si propaga, attraverso uno spesso gradiente di socialità, fino al principio della rappresentanza istituzionale. Tradizione, tradire: il gesto della consegna, in latino tradĕre, è l’atto pubblico consacrante di un far memoria che, senza quel gesto, resterebbe immersione puramente individuale. Eppure, tanto Novecento delle arti ha ostracizzato il concetto di tradizione, in nome di un’ossessione per il nuovo che, a dire il vero, è ben difficile da aggirare anche nel mondo della critica teatrale, anche in chi scrive. C’è però una dimensione salvifica nel consegnare un bene, materiale o immateriale, che si ripropone in una certa misura come identico.
Con Save the last dance for me, Alessandro Sciarroni ha effettuato il salvataggio della Polka Chinata, un ballo bolognese che, prima del progetto, era praticato solo da cinque persone (potremmo dire, dunque, che di quel salvataggio è uno degli agenti, sia pure il principale). Il coreografo, Leone d’Oro quest’anno alla Biennale Danza, ha lavorato su due piani operativi strettamente connessi: con una comunità di curiosi che, nei giorni del festival, hanno seguito un workshop aperto a tutti, e con i danzatori professionisti Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini, che hanno poi offerto un saggio dell’antico ballo in una performance pubblica e gratuita sotto il tendone di Imbosco (location del sempre ricco dopo-festival santarcangiolese). Diversi gli elementi riconoscibili nella poetica di Sciarroni: in primis l’ossessione per il gesto come strumento di indagine di un tempo sospeso, da conquistare, che è il tempo della performance ma è anche, in certa misura, l’indefinito futuro. Un’ossessione che sposa alla perfezione l’incessante vigoroso volteggiare della Polka Chinata, un ballo fisicamente impegnativo, tradizionalmente un rituale di corteggiamento per soli uomini, in questa occasione allargato all’altro sesso. In Save the last dance for me palpita una sete di futuro, la necessità di esorcizzare o sublimare l’incombere di una fine, riscontrabile in altri lavori dell’artista marchigiano come FOLK-S – Will You Still Love Me Tomorrow?, dov’è sempre una danza tradizionale, in tal caso il bavarese Schuhplattler, a essere impiegato come impianto coreografico generante la performance. Il momento della rappresentazione si dà dunque come atto non-concluso: così come il volteggiare rimanda ad una ciclicità eternamente ripetibile, sia come gesto concettuale che come risposta all’inestinguibile pulsione del corteggiamento, altrettanto la necessità di tramandare le regole della danza si riproporrà in futuro, come argine al costante rischio della scomparsa. In tal senso il progetto si fa appello rivolto al pubblico a introiettare il contenuto della performance e farsene testimoni-traduttori, in un’operazione di continuo salvataggio affettivo e mnemonico che produce sapere. Ecco una risposta raffinata allo spopolare di pratiche partecipative che, nella maggioranza dei casi, si spengono invece nell’effimero dell’intrattenimento.
Un altrettanto raffinata interpretazione dell’urgenza partecipativa è Bermudas di MK, Michele Di Stefano, visto allo Sferisterio di Santarcangelo. Altro progetto che mira a non esaurirsi nello spazio e nel luogo della performance, disponendo un laboratorio aperto al pubblico. Bermudas è un rimando al mito delle isole tropicali, all’idea di una geografia calda e colorata, ma anche attraversata da eventi ciclonici: un altrove di luce e vento che chiama il corpo a esporsi, a testare con la propria massa la densità dell’aria. I sette performer entrano in relazione sulla scena in formazioni variabili: duetti, terzetti, quartetti, etc… che lasciano, di volta in volta, alcuni ad attendere ai lati della scena. Ma anche quello spazio di attesa diventa luogo performativo: i corpi ansimanti si lasciano guardare mentre studiano il tempo del ritorno, in una dialettica fra punti di vista corali e individuali. La scrittura coreografica è chiara, un performer introduce al pubblico la partitura base di quattro movimenti che saranno poi ripetuti costantemente, riarticolandosi ogni volta in base alla formazione in movimento. Come in Save the last dance for me, il moto rotatorio è uno strumento di indagine della qualità dello spazio. Tuttavia, qui è privato della temperie agonistica della polka: più della tensione erotica, c’è una dimensione esotica che incide accenti lievi, piccole ironie e gioiose vibrazioni allo sfiorarsi dei corpi. Il ritmo e l’ingresso cadenzato in scena pongono come nucleo tematico la compresenza, in uno spazio condiviso, di figure che seguono autonomamente la stessa legge di moto. La schematicità della performance non implica una ripetitività banale, il gesto elementare dischiude un gioco compositivo potenzialmente infinito. Ed offre la possibilità di trasmettere il movimento: Bermudas diventa, nell’arco di un giorno, Bermudas Forever, una seconda performance che ha offerto a chiunque volesse di sperimentare la stessa dinamica, in loop. Le ali del palco prima citate sono così divenute spazio laboratoriale per una live experience dedicata al pubblico santarcangiolese. Di nuovo, il progetto avvicina la danza allo spettatore abolendo, senza produrre dilettantismo, l’aura esoterica di una disciplina da cui può erompere la gioia dell’incontro. Di nuovo, la consegna di un movimento genere una tradizione, un’apertura al futuro attraverso lo scambio: un desiderio d’infinito che è tutto riassunto in quel forever.
Graces: il mito classico da Canova a Gribaudi
di Pietro Perelli
Memoria e tradizione le ritroviamo, seppur unite a novità e contemporaneità, anche nella proposta più interessante del primo weekend del Festival di Santarcangelo. Stiamo parlando di Graces di Silvia Gribaudi, ispirato alle Tre Grazie di Antonio Canova, scultura classica rappresentante le tre figlie di Zeus – Aglaia, Eufrosine e Talia – divinità che diffondevano gioia, splendore e prosperità. Il neoclassicismo di Canova, in questa proposta, si fonde con la contemporaneità, e così le tre Grazie vengono interpretate dai corpi maschili di Siro Guglielmi, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo, mentre Silvia Gribaudi pare incarnare lo scultore dirigendo dal palco la performance di cui è coreografa e drammaturga insieme a Matteo Maffesanti.
Il bianco marmoreo predomina la scena creando una connessione visiva con l’opera del Canova che viene ben descritta anche grazie alle espressioni facciali e alla parola, e in generale alla capacità degli interpreti di rappresentare i valori delle tre figure attraverso le forme della danza. Quella di cui i performer si fanno portatori viene decostruita e ricostruita creando una miscela di movimenti capaci di fondere tradizione e innovazione in un connubio che porta a interrogarsi sul concetto di bellezza che Silvia Gribaudi indaga da tempo.
In un’intervista curata da Roberto Berti in occasione della residenza artistica presso Armunia a Castiglioncello (LI), la Gribaudi spiega la genesi del suo lavoro: «durante la mia riflessione sulla bellezza ho incontrato Andrea Rampazzo, Siro Guglielmi e Matteo Marchesi, lavorando già da tempo con Matteo Maffesanti e, con la new entry, Giulia Ghinelli. Tutti noi ci siamo conosciuti a Bassano del Grappa dove sono conservati dei bozzetti di Antonio Canova. Da qui la scelta del tema delle Tre Grazie, l’opera del Canova realizzata tra il 1812 e il 1817. Quindi un anno e mezzo fa abbiamo iniziato le prime prove nel museo di Bassano con i tre ragazzi, e poi si è unito Matteo (Maffesanti) che ha proposto di inserire anche me in scena».
In Graces si nota chiaramente il solco dell’indagine che Silvia Gribaudi ha tracciato, un passo in avanti rispetto a uno spettacolo come R.OSA_10 esercizi per nuovi virtuosismi. Mentre, infatti, in quest’ultimo ci si trovava di fronte a un monologo in danza di un corpo dalla bellezza anti-canonica, in Graces il passaggio che si compie sta nel dialogo tra corpi profondamente diversi tra loro e probabilmente scelti con accuratezza. A un primo sguardo infatti potrebbe sembrare un dialogo a due tra i tre danzatori portatori di una bellezza canonica e Silvia Gribaudi. In realtà la forza e la complessità dello spettacolo risiedono proprio nel riuscire a interpretare questo dialogo nelle sue quattro peculiarità mostrando la bellezza unita alla diversità di ognuno.
Il passaggio compiuto da Silvia Gribaudi in questa performance che si iscrive nel suo studio sulla bellezza risiede nella capacità di creare dialogo mettendo in connessione i protagonisti della scena tra loro e con il pubblico. Un passaggio che dà forza e rende evidenti le particolarità di ognuno superando il canonico senza dimenticarlo. I tre ballerini hanno infatti una bellezza profondamente diversa tra loro e che difficilmente potrebbe essere definita canonica, il contrario di quello che tentano di rappresentare in questa connessione con la scultura del Canova. La danza e l’unione di questi quattro corpi riesce però a riproporre il canone rendendo evidente al pubblico una bellezza classica, riconoscibile nell’abbraccio tra i quattro corpi in scena.