Arti Performative

Romeo Castellucci – The Four Seasons Restaurant

Renata Savo

Come sull’orlo di un buco nero, qualcosa – non-immagine, non-vita – chiede di non essere lasciato, di essere trattenuto e custodito nella memoria. Un elogio a “quello che resta” dopo una fine apocalittica

Da sempre l’impegno di Romeo Castellucci è ineguagliabile sul piano nazionale e internazionale quando si tratta di mettere in atto espedienti dal forte impatto visivo e sonoro. Questa volta, poi, con The Four Seasons Restaurant, presentato al Romaeuropa festival, sembra aver tentato di spingersi addirittura oltre ma, almeno in linea teorica, nella direzione opposta: verso la negazione – piuttosto che il trionfo – dell’immagine, cedendo solo verso la fine a una sorta di apoteosi della sfera visiva. Una sottile contraddizione, quindi, lega i primi agli ultimi minuti dello spettacolo. Forse perché, dopotutto, anche attraverso la negazione di un’immagine, di un’opera, un po’ come l’artista Mark Rothko con le sue tele esposte prima, e poi da lui stesso ritirate, al lussuoso “Four Seasons Restaurant” di Manhattan, da cui deriva il titolo di questo lavoro: ciò che cessa di esistere non significa che non sia mai esistito, resta sempre il ricordo di un’esperienza, di un contatto.

La dialettica tra presenza e assenza penetra l’intero spettacolo, sin da quei primi minuti che richiamano continuamente lo spettatore a una presenza, proprio durante il “suono” vorticoso di un buco nero: il rumore prodotto dalla materia non ancora risucchiata, sfiorata da gas che al loro passaggio causano delle periodiche oscillazioni (spiegano i titoli su uno schermo che occupa l’intero boccascena). Un sentimento di angoscia assale lo spettatore, mentre i suoni crescono d’intensità nel buio totale, ma non perché ci sentiamo risucchiati; perché ci sentiamo come quella materia che ancora “è”, esiste, e che afferma la sua esistenza per l’ultima volta con una forza indicibile, prima di lasciare l’Universo “conosciuto” e abbracciare l’ignoto: ciò che spaventa di più, in assoluto.

Come sull’orlo di un buco nero, qualcosa – non-immagine, non-vita – chiede di non essere lasciato, di essere trattenuto e custodito quindi, nella memoria. Un elogio a “quello che resta” dopo una fine apocalittica sembra The Four Seasons Restaurant; dopo che l’estasi donata dagli oggetti in movimento tra due teli trasparenti (un movimento legato qui alla vita, spinto dall’azione incredibile di forze aeree su tantissimi elementi piccoli e leggeri riecheggianti, nella moltitudine, masse d’acqua che si rovesciano l’una sull’altra) ha spazzato via tutto quello che c’era prima: le parole, i corpi, gli oggetti, le voci. In una sorta di annullamento generale, di sé e del mondo, non a caso sulle ultime note del Tristan und Isolde di Richard Wagner (in cui Isotta effonde se stessa “nell’immenso fragore, nella palpitante pienezza del respiro del mondo”) mentre alla parola scritta, priva di suono, è affidato il messaggio: “Non mi lasciare”. Ci può essere tensione più forte?

Forse è troppo grande e profondo il messaggio di questo lavoro per essere compreso, o forse, vuole generare molteplici punti di vista (ma finisce inevitabilmente per generare anche un po’ di noia nel “mezzo”) attraverso il contrasto forte tra l’introduzione e la fine insieme e la parte “centrale”, in cui la rappresentazione di un testo poetico di Friedrich HölderlinLa morte di Empedocle, viene scardinata gradualmente, perdendo prima il suo contesto e una recitazione naturalistica, poi la voce – sostituita da quella scorporata di un registratore vintage – e infine, l’immagine.

Empedocle: il filosofo si tolse la vita gettandosi nell’Etna, il vulcano che poi, leggenda vuole, avrebbe eruttato rigettando uno dei suoi sandali di bronzo; anche in questo caso, si tratterebbe di “quello che resta”, che vuole sopravvivere per chiedere prepotentemente alla memoria del tempo di non essere lasciato.

Bellissima la scena in cui le donne si stringono a formare un solo corpo, dal quale vengono partorite una alla volta, spogliandosi e mostrando la loro natura, prima di uscire di scena e cederla all’“apocalisse”. Genesi e apocalisse, vita e morte, il rapporto dell’io con il mondo, sono temi assolutamente evidenti in The Four Seasons Restaurant. Peccato solo che l’eccessiva quantità di elementi iconici faccia perdere un po’ di attenzione e che, soprattutto, conduca lo spettatore a destreggiarsi con difficoltà in mezzo a segni che, purtroppo, tendono ad apparire troppo spesso fine a se stessi.


Dettagli

  • Titolo originale: The Four Seasons Restaurant

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