[Riproponiamo la recensione del film I milionari di Alessandro Piva, scritta in occasione della sua presentazione alla nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma tenutasi nel 2014]

Il regista salernitano (ma residente a Roma) Alessandro Piva, classe ’66, autore di numerosi film e sceneggiature (tra cui Pasta Nera), arriva al Festival Internazionale del Film di Roma con il suo nuovo lavoro, dal titolo I milionari, inserito all’interno della sezione Gala della manifestazione. Il film, appartenente al filone del cinema di genere e più nello specifico inserendosi nel ritrovato interesse verso il cinema gangster di stampo camorristico, sulla scia di successi come Song ‘e Napule oppure Gomorra – La serie, ci riporta a certe atmosfere filmiche degli anni ’70-80 italiani.

Milionari riporta l’ascesa e la caduta di un clan criminale napoletano attraverso il racconto di un boss e della sua famiglia, scissa tra l’aspirazione a una vita borghese e le pulsioni profonde della sopraffazione. Trent’anni di storia di una delle città più belle e discusse del mondo, Napoli, in cui ha voce il sogno di un ragazzo che si fa travolgere dalla brama di un potere fine a se stesso, per diventare l’incubo di un uomo e di chi gli vive accanto.

A metà strada da un film camorristico, ma con la struttura narrativa de L’ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi, Milionari rappresentata un tentativo – poco riuscito – di scimmiottare codici e segnali consolidati all’interno del genere in cui si muove. Il risultato è fallimentare: la storia, fiacca, non coinvolge lo spettatore, che molto spesso si ritrova a chiedersi il perché di alcuni tempi morti. Il tentativo di essere una commedia brillante, fallisce miseramente in quanto anche i momenti “comici” del film vengono banalizzati oltre misura. L’estetica, che, come già detto, tenta di ricordare certo cinema di genere, in realtà attinge molto soprattutto alle recenti serie tv (Romanzo Criminale su tutte, ma anche la già citata Gomorra). Il risultato non è tanto un film brutto o noioso, perché comunque si segue con facilità, quanto piuttosto inutile, il che è per certi versi ancora più grave.