Arti Performative Dialoghi

Roberto Castello e i suoi “Tempi Moderni” tra operazioni socio-culturali e un nuovo Umanesimo del teatro

Roberta Leo

Alla vigilia della rassegna Tempi moderni. La commedia rivista che si è svolta dal 23 luglio al 2 agosto a Capannori (LU), abbiamo dialogato con Roberto Castello, danzatore, docente e coreografo tra i principali promotori della danza contemporanea in Italia, fondatore dell’associazione culturale Aldes e curatore di manifestazioni, rassegne e progetti di sperimentazione coreografica e interazione tra danza, teatro, nuove tecnologie e arti visive. Al centro dei suoi studi c’è sempre il corpo, il movimento con le sue rappresentazioni, evoluzioni. In questa fase di faticosa e graduale ripresa dopo l’emergenza sanitaria da Covid-19 tante sono state le voci degli artisti e dei professionisti del teatro di danza che più di tutti sono stati penalizzati dal distanziamento sociale nell’espressione del loro lavoro. Roberto Castello, con Tempi moderni, fotografa questo tempo cogliendone le difficoltà, ma anche la bellezza. Con un omaggio all’omonimo film di Charlie Chaplin, sono andati in scena quattro minispettacoli che hanno traslato sulla scena i grandi cambiamenti derivati dalla rivoluzione economica industriale, e dunque artistica, attualmente in corso, rivendicando la bellezza e l’onestà dei corpi in movimento, anche se a distanza.

“Tempi Moderni” a Capannori (LU)

Tempi Moderni: un chiaro omaggio al capolavoro di Charlie Chaplin del 1936. Cosa è cambiato da allora ad oggi?

La mia vuole essere una consapevole ed esplicita citazione a Chaplin, ma anche un omaggio. Avevo pensato anche a Totò, ma avrei corso il rischio di essere troppo vernacolare. Si tratta di una generazione di artisti (Totò, Petrolini, De Sica), ma anche di personalità di grande cultura e raffinatezza, capaci di dire e fare cose che offrivano consapevolezza del quadro storico e artistico dell’epoca in cui operavano attraverso un linguaggio molto popolare. Ho quindi avuto la sensazione che questa forte discontinuità data dall’emergenza pandemica e dalla quarantena fosse un’opportunità per ricollegarsi a strade di pensiero e percorsi artistici che si sono interrotti un po’ di anni fa. Forse questa situazione può indurre noi artisti d’avanguardia a ricercare chiavi sempre nuove. Negli ultimi anni si è avvertita una forte chiusura del mondo contemporaneo, dominato da tendenze molto autoreferenziali; una chiusura certamente involontaria e dettata dai nuovi meccanismi di comunicazione. Ogni nostro lavoro finiva per essere parte di un dibattito a noi circoscritto e io credo che ciò sia in profonda contraddizione strutturale con quella che è la ragion d’essere del teatro, che dovrebbe essere invece un qualcosa di assolutamente popolare e capace di entrare in relazione. Il nostro pubblico ci stava assomigliando sempre di più, anche troppo. Quindi Tempi Moderni è nato da questa confusa e forse utopica idea che magari una crisi possa diventare un’opportunità per ripartire in modo più consapevole.

La rassegna è stata pensata in un’ottica sociale e solidaristica. Può spiegarci meglio questo aspetto del lavoro?

Un elemento non secondario del progetto è il tentativo di integrare la produttività teatrale all’interno del contesto sociale. Io sono un’artista e in ogni cosa che faccio penso prima di tutto al valore simbolico che il lavoro reca in sé. Se io trasformo in un prodotto teatrale delle risorse economiche ingenti e destino queste ad una serie di artisti, allo stesso tempo compirò anche un’operazione culturale di apertura territoriale e di coinvolgimento. Nascono così diverse collaborazioni, ma tutte le risorse impiegate percepiscono all’incirca lo stesso compenso in un’ottica egualitaria ma anche sociale; questo non vuol dire semplicemente “solidale” bensì a sostegno dei soggetti più bisognosi. Finanziando i nostri lavori si va anche incontro al pubblico. È un processo economico: noi non guadagniamo per lavorare ma per sopravvivere, per continuare a esistere. I fondi che otteniamo dalle istituzioni vengono da noi utilizzati esattamente secondo le modalità da esse e vengono trasformate nelle paghe destinate agli artisti.

Nel nostro “tempo moderno” la cultura deve quindi farsi strumento economico e sociale?

Io sono profondamente avverso all’idea che la cultura debba produrre ricchezza finanziaria e che la sua efficienza si misuri in PIL. La sua priorità e ragion d’essere è e deve restare quella di diffondere idee, produrre incontri, sensibilità, scambi, relazioni. E se pure c’è un ritorno economico questo deve essere sistemico non specifico. Siamo artisti non ragionieri! In Tempi Moderni abbiamo cercato con garbo di tenere le fila di tutto questo pensiero. Anche i contenuti degli spettacoli sono determinati dalle scelte artistiche e stilistiche dei compositori. Ho chiesto loro di scrivere brani molto brevi ma il cui pensiero musicale è molto differente; nonostante siano tutti improntati su una leggerezza ed efficacia della comunicazione e vantino una cifra stilistica aperta a tutti, ognuno ha il suo imprinting. Andiamo nelle case delle persone, nei cortili. Il pubblico non va avvilito con pene e dolori ma alleggerito con cose semplici. Il tutto è ovviamente mediato: ho dato degli input ai drammaturghi, che ognuno di loro ha colto e sviluppato secondo la propria sensibilità. Sono creazioni molto semplici e sono le risultanti dell’incontro di varie sensibilità.

Tempi moderni parla anche di come oggi siano cambiati i valori in cui l’uomo crede. È cambiato anche il valore della danza nel nuovo millennio. Ricercando continuamente una nuova identità si resta purtroppo fermi. Ed è un paradosso che questo spettacolo sia nato nell’immobilità e nel rispetto delle distanze sociali. Come si traduce ciò a livello coreografico?

L’idea è nata nella fase più severa del lockdown, che ci ha spinto a chiederci cosa avremmo fatto appena sarebbe stato possibile muoverci di nuovo. Intanto abbiamo organizzato il lavoro in modo tale da avere un solo interprete in scena alla volta. In realtà ci sono stati solo due interpreti ad alternarsi, senza condividere mai la scena, la quale consiste in una pedana di circa due metri e mezzo con il pubblico che osserva dai balconi o resta seduto nei cortili. Dopo tante settimane di reclusione, una ventata di freschezza e di vita per la gente. Ci offriamo come diversivo. Ovviamente la limitatezza del pubblico ha condizionato anche la portata delle performance, che si sono mantenute semplici per rientrare in costi contenuti. Abbiamo cercato di coinvolgere gli artisti con costi bassi ma senza che questo andasse però a svalutare l’impegno, il tempo e la professionalità degli artisti. Odio gli sprechi, specie quelli del teatro italiano. Preferisco di gran lunga la trasparenza!

Tu che sei stato un capofila della danza contemporanea secondo te cosa manca oggi alla ricerca?

Danzo da circa quarant’anni. Continuo a pensare che pensare allo spettacolo dal vivo in una dimensione strutturale e disciplinare dello spettacolo sia un grave errore perché pone l’accento sugli strumenti e non sui contenuti che si generano. La danza non esiste! La danza c’è laddove esistono persone che vanno su un palco con la loro figura, il loro aspetto, il loro corpo, la loro voce e musicalità; ma non c’è mai un punto di discontinuità. Ciò che convince uno spettatore ad andare a teatro a vedere qualcuno che danza non è di certo la sua bravura bensì la pregnanza di ciò che viene comunicato a prescindere dal linguaggio. La tecnica dovrebbe ormai darsi per scontata ma deve comunque dire qualcosa di importante. Credo che purtroppo si continui a pensare in termini disciplinari. La danza, la drammaturgia, la musica, la lirica. Io penso che sia un modo per distogliere l’attenzione dal valore e dal contenuto, ossia, da ciò che gli spettatori elaborano stando di fronte alla scena. Se tutti i danzatori si pensassero anche come attori e viceversa la situazione migliorerebbe di gran lunga. In discoteca si balla e si fa festa. Ciò che accade sul palco è un racconto, un atto rituale. Finché si continueranno a definire a priori delle categorie contenenti delle logiche “modaiole” e comunque forzate sarà certamente impossibile definire la nuova frontiera della danza.

Potrebbe esserci un nuovo neoclassicismo? Un ritorno a valori primordiali del corpo e, prima ancora, della scena? Un nuovo umanesimo del corpo?

Io sono un attore molto fisico. Ci sono danzatori che pensano sia sufficiente fare ciò che hanno imparato alle lezioni di danza ma non è così. Per molti eseguire correttamente i passi costituisce purtroppo una ragione sufficiente per giustificare il fatto di andare in scena. Invece credo che bisognerebbe mettere la propria tecnica e professionalità al servizio di un’idea. L’industria dello spettacolo ha come risultato dei prodotti che nulla hanno a che vedere con l’arte. Partire da categorie rigide è una comodità, una forma di pigrizia intellettuale. Chi insegna ha bisogno di “fare” non solo di “guardare” il teatro. Si dovrebbe tornare ad una visione più umanistica del teatro, al centro della quale c’è l’uomo.

 

[Immagine di copertina: “Mbira”. Roberto Castello con Giselda Ranieri. Foto di Piero Tauro]



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