Libri

Ricordando Amiri Baraka

Roberta Iadevaia

Meno di tre mesi fa emozionava il pubblico del DoctorClip di Roma: Amiri Baraka, fra le personalità più radicali del panorama culturale americano, se ne è andato lo scorso giovedì a Newark, nel New Jersey, dove era nato 79 anni fa. 

“Since the rich eat more/ than anybody else/ It is reasonable to assume/ that they are more full of shit”.

“A man is either free, or he is not. There cannot be an apprenticeship for freedom”.

“Art is whatever makes you proud to be human”.

Non è stato certo un moderato Amiri Baraka – al secolo Everett LeRoi Jones – né nelle sue opere né tanto meno nelle proprie scelte di vita; due sentieri questi – vita e opere – di una medesima strada che per lo scrittore, performer e “poeta laureato” afroamericano inevitabilmente conduce all’impegno politico, nella convinzione che nulla sia più menzognero dell’“arte per l’arte”: “art is a weapon in the struggle of ideas, the class struggle”, ha dichiarato in un’intervista.

“Attivista politico rivoluzionario”, come amava definirsi, Baraka contribuisce a fondare, tra il 1964 e il 1965, il Black Arts Movement, alleato del movimento Black Power, di cui è stato una guida storica. Dopo l’assassinio di Malcom X si converte all’Islam cambiando il proprio nome, per poi avvicinarsi, dopo un periodo di dirigenza dell’organizzazione musulmana Kawaida, al marxismo.

Tra gli esponenti  della beat generation, a cui si avvicina in giovane età, autore di più di 40 libri tra saggi, poesie, racconti, romanzi, opere teatrali e di critica culturale e musicale, Baraka si è servito di ogni forma espressiva  come di un’arma per sostenere una lunga lotta contro il razzismo e a favore dell’affermazione dei diritti degli afroamericani. La sua produzione artistica ha ispirato una generazione di poeti, drammaturghi e musicisti; la sua concezione di poesia, intesa come “music, and nothing but music” , la rabbia che caratterizza ogni testo e il linguaggio spesso tratto dalla strada ne hanno fatto un riconosciuto precursore del rap, dell’hip-hop e del “poetry slam” (gara di poesia in cui diversi poeti competono leggendo sul palco i propri versi, valutati da una giuria).

Tra le opere più note ricordiamo: Preface to a Twenty-Volume Suicide Note, la sua prima raccolta di poesie pubblicata nel 1961; la pièce teatrale Dutchman and the Slave (1963), incentrata sull’asprezza del conflitto interrazziale in corso negli anni Sessanta che ottenne grande successo nei teatri underground americani e si aggiudicò il premio Obie nel 1964; e The Essence of Reparations (2003), fondamentale raccolta dei saggi scritti da Baraka sui temi a lui cari: il razzismo, l’oppressione nazionale, il colonialismo e il neo-colonialismo, e il principio dell’autodeterminazione. Del 2003 è anche la ristampa di una delle sue opere più conosciute, Il popolo del blues, raccolta di saggi di critica musicale nonché testo politico di riferimento nella storia della cultura afroamericana. Scritto nel 1963 con il sottotitolo Negro Music In White America, tradotto in italiano con il più morbido Sociologia degli Afroamericani attraverso il Jazz, il testo ripercorre in maniera originale la storia afroamericana attraverso la musica che ne ha costituito la colonna sonora,  il jazz e il blues, che per Baraka hanno significato una vera e propria passione, nonché prezioso accompagnamento all’esecuzione delle sue poesie.

E a proposito di queste ultime, non si può non ricordare la celebre Somebody Blew Up America, nella quale Baraka sostiene con convinzione che Israele e il Presidente George W. Bush fossero già a conoscenza degli  attentati  dell’11 Settembre 2001: “[…]Chi sapeva che la bomba sarebbe scoppiata/Chi sa perché i terroristi/Hanno imparato a volare in Florida, San Diego/Chissà perché cinque israeliani stavano filmando l’esplosione […] Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato attaccato/Chi ha detto a 4000 lavoratori israeliani nelle Twin Towers/di stare a casa quel giorno/Perché Sharon si è tenuto lontano”. Lo scandalo fu enorme: contestato in maniera durissima, attaccato dalla critica come omofobo, antisemita e demagogo,  Baraka ha sempre respinto tali accuse sostenendo di essersi riferito allo Stato d’Israele e non agli ebrei, definiti “vittime degli Stati Uniti che hanno aiutato i nazisti a spedirli nei forni crematori”. 

Come scrive Lello Voce parlando di Baraka, “compito del poeta, la cui arte è fatta di parole, è anche di dire ciò che nessuno, in quel momento, vuol sentirsi dire”. E questo compito l’attivista afroamericano, dai molti definito “il Malcolm X della letteratura”, lo ha svolto per tutta la vita e con ogni mezzo. Anche per questo la sua morte lascia un grande vuoto in uno scenario artistico troppo spesso soggiogato da logiche di mercato, in cui la parola “militanza” sembra purtroppo essere divenuta retaggio di un passato assai distante.



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