RezzaMastrella // 7, 14, 21, 28
Un circo confuso e tutto matematico lo spettacolo 7, 14, 21, 28 di Antonio Rezza, che ha letteralmente dato i numeri e urlato come uno spiritello invasato, saltellando e correndo instancabilmente sul palco del Teatro Fabbricone di Prato lo scorso 30 gennaio. Eppure ha conquistato il pubblico che ride fino alle lacrime per tutta la durata della performance. Salva, tuttavia, l’impassibilità di pochissimi spettatori che, forse per puro cinismo o più semplicemente perché maggiormente sensibili e coscienti, restano, invece, a labbra serrate. Per il resto, fin dal principio, si ride a crepapelle solo a guardarlo, mentre si dondola tra corde e tessuti o striscia su pattini mobili e altri accessori tutti sapientemente disposti e realizzati da Flavia Mastrella. Le sue creazioni, pur rappresentando un colorato parco giochi, sanno tristemente di morte e si prestano, di volta in volta, ad essere teatro di episodi in cui la fanno da protagonisti indiscussi la scenografia e il rumore. La prima è un chiaro riferimento all’infanzia e alla spensieratezza che andrebbe stroncata fin dalla nascita proprio per preparare l’uomo-bambino alle bruttezze dell’esistenza. Fortemente intrisa di simbolismo geometrico la scenografia raffigura, infatti, l’inquietante altalena di un parco giochi montata su un cavalletto da pittore e su alcune travi disposte a triangolo e velate, come un vascello, da stoffe bianche e rosse. Spicca tra i colori, come pure tra le luci, la voluta assenza del verde, quasi a voler fare un dispetto al tricolore italiano. Il sodalizio della coppia RezzaMastrella, sentimentale oltre che artistico, si evidenzia esplicitamente in tutto lo spettacolo. Pare ovvio che le scene della Mastrella sono quell’idea senza la quale lo spettacolo non avrebbe senso nella sua insensatezza. Legati alle scene da una logica causalità, i rumori derivano ora dallo stridore dei pattini su cui l’attore vola e nuota in lungo e in largo per il palcoscenico, ora dallo strusciare dei teli sulla sua pelle per deformarne il viso, ora dal cigolio delle funi dell’instabile altalena o dall’estenuante radio di una centrale dei carabinieri, ora dal meccanico rombare delle macchine di una fabbrica di operai. Ma i suoni più strani e indisponenti giungono proprio da Rezza in persona. Martellante fino all’esasperazione, l’onomatopea dello spettacolo rispecchia la ripetizione e la sequenzialità ossessiva delle parole dell’attore, esaurendo la concentrazione dello spettatore più vulnerabile e svuotandone la testa fino a renderla così vuota e leggera da implorare l’arrivo di un sonno pieno. Ma è troppo tardi perché le repliche delle urla di Rezza continuano a riecheggiare anche nel vuoto silenzioso e nella solitudine del post spettacolo e ci vorrà molto più che una bella dormita per riuscire a liberarsene. La sua voce camaleontica, in grado di adattarsi ai timbri e ai moduli più strani, s’insinua in ogni angolo della capienza teatrale, così come il suo corpo che con estrema fisicità raggiunge ogni punto e spazio della scena con improbabili atletismi. Rezza è, dunque, un performer che si esprime esplicitandosi in modo totalizzante e completo a trecentosessanta gradi. Accanto a questo caos, a questo disordine, a questa tuttologia si posiziona, onnipresente, un’ordinata e impeccabile perfezione numerica. La scienza esatta della matematica che tutto può contraddire e mettere in discussione ricorre continuamente e ossessivamente, così come i movimenti, i rumori, le battute. È una forma di protesta, è la soluzione a tutti i problemi ma allo stesso tempo sembra ugualmente contagiata dalla pazzia, dalla mancanza di senso e di regolarità che affligge in tutto quest’opera irriverente, proprio come sembra suggerirci beffardamente il titolo. Forse queste fredde numerazioni che si moltiplicano e si riducono all’infinito sono la chiave di lettura per scoprire che la ricerca è vana e la soluzione inesistente.
[Immagine di copertina: foto di Giulio Mazzi]