Libri

#RepIdee14: La (ri)scrittura della cittadinanza

Francesca Fichera

Un reportage della rassegna culturale di Repubblica, sul concetto di lettura e (ri)scrittura del vivere, in Italia e nel mondo, a partire da Napoli.

Riscrivere il Paese: è stata la tagline della Repubblica delle Idee 2014, rassegna culturale lanciata e organizzata dal gruppo editoriale di L’Espresso e La Repubblica e ospitata fino a domenica scorsa dal “doppio teatro” di Napoli, radioso capoluogo campano. Un’iniziativa che coglie il giusto spirito di rivalsa di un’Italia “che non riparte senza il Mezzogiorno” e non può costruire niente in assenza di solide fondamenta culturali. Di parole che si trasformino in fatti, di un testo comune d’intenti che sia sinonimo di coesione. Di un passato che non sia solo in grado di autocelebrarsi ma di riattualizzarsi attraverso la scrittura di un presente orientato al futuro.

Fa respirare, dunque (perché sperare è una brutta parola), l’alternarsi di grandi personalità del panorama culturale nostrano e internazionale – quali, ad esempio, Francesco Altan, Zygmunt Bauman, Raffaele La Capria, Gipi, Francesco Piccolo, Gabriele Salvatores, Toni Servillo e Paolo Sorrentino – sui palchi allestiti negli ambienti letteralmente regali del Palazzo Reale di Napoli e del Teatro San Carlo, nonché in una piazza come quella Del Gesù, fra i maggiori fulcri del centro storico partenopeo; fa respirare perché il sentirli parlare dei loro modi di leggere, studiare, analizzare, scrivere e dipingere la società e l’esistenza è un’occasione di raro e imperdibile confronto, di sfida a fare di più e soprattutto meglio, che ossigena la mente.

Nel corso degli svariati appuntamenti in cui s’articolava il programma, dai panel sui mestieri specifici del giornalismo (sezione de L’officina) ai dialoghi tematici (Dialoghi) fino agli incontri monografici (Straparlando), si è assistito – sorprendentemente – a una spontanea emersione dello scrivere, del narrare, come discorso trasversale a tutti gli ambiti, tanto politici quanto artistici, connaturato a un’umanissima – eppur da recuperare nella sua interezza e coerenza – ricerca d’identità. Vivere il mondo e raccontarlo (bene), come nel giornalismo così attraverso la narrativa, è già, e comunque, fare letteratura: tutta la questione sta nella qualità dello sguardo. Lo affermano con forza il critico Enzo Golino, gli scrittori Diego De Silva e Raffaele La Capria, e lo storico e giornalista Giuseppe Galasso, “la scuola napoletana dell’Espresso” riunita sul palcoscenico del Teatrino di Corte, con la moderazione di Bruno Manfellotto, per uno degli appuntamenti più interessanti della RepIdee2014.

Crollano le separazioni, le dicotomie: nella società fluida di Bauman anche discorsi e linguaggi si intersecano, tanto che La Capria – splendido novantaduenne – invoca più e più volte «la fedeltà al linguaggio fantasticante della letteratura» anche nella pratica giornalistica. Una concezione che è fattivamente dimostrata dal buon accordo instaurato fra le sue parole, liriche e struggenti, e il sereno pragmatismo di Galasso, che invece del giornalismo attesta il merito di avergli donato «capacità di chiarezza, sintesi e concentrazione». Per lui – autore, peraltro, di numerose e importantissime inchieste su L’Espresso – la risorsa necessaria a uno sguardo saggio e lucido sul mondo, in particolare sull’esperienza italiana divisa fra Nord e Sud, sta nel considerare come assunto di base la tensione dialettica interna al progresso, il suo comportare enormi risultati in cambio di perdite di eguale entità. E a una simile e rinnovata tensione critica mirano anche Golino, che ammette un’assenza di tipo “fattivo” da parte degli intellettuali italiani sulle questioni di maggiore urgenza, e De Silva, che per il futuro auspica un racconto “impegnato” della realtà riguardante «una verità meno evidente, con una narrazione non folkloristica».

La crisi d’identità corrisponde quindi a una crisi dello spirito critico, a sua volta dipendente dal declino del contesto culturale di un Paese che sembra avere interpretato la frammentazione e la fluidità post-moderne nella loro accezione più abbietta. E Altan – intervistato per l’occasione da Simonetta Fiori – questa crisi l’ha disegnata bene, anzi benissimo,«introiettando le cose» fino a farle accumulare e poi implodere, e identificandosi più che spesso con i suoi uomini in poltrona, panciuti e dal naso a ricciolo, simbolo di un disagio, uno sconforto e un disorientamento tutti di sinistra – «Mi è venuto un dubbio ma non so se è quello giusto». La sua satira a matita è forse fra i più riusciti “romanzi d’Italia”, crudelmente disincantata ma non per questo priva di uno slancio in avanti, verso quella “religione civile” di cui parlava il padre Carlo Tullio – partigiano e militante nel Partito d’Azione – e per la quale non esisteva alcuna cesura fra politica e cittadinanza. Solo un immensamente sentito – per l’appunto, quasi sacro – senso di responsabilità, una profonda consapevolezza dell’esser parte di qualcosa. Per cui ha ragione, ancora, Galasso nel dire: «anche gli intellettuali sono cittadini». E il reciproco non è possibile, forse è un obbligo, per riscrivere tutto e bene.



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