Arti Performative Focus

“Rambert Event”: palingenesi di uno stile a cent’anni dalla nascita del suo creatore

Renata Savo

A dieci anni dalla scomparsa e ben cento dalla nascita, il Romaeuropa Festival ha reso omaggio il 17 novembre a Merce Cunningham, considerato il “padre” della postmodern dance, e lo ha fatto all’Auditorium Parco della Musica con Rambert Event, uno spettacolo della compagnia Rambert composto da brani estratti dalle coreografie di Cunningham, arrangiati e rimessi in scena dalla sua ex danzatrice Jeannie Steele, con le musiche create ed eseguite live da Philip Selway (drummer dei Radiohead), Quinta e Adem Ilhan e da scene e costumi ispirati alla serie di dipinti realizzati dall’artista tedesco Gerhard Richter.

Lo stile di Cunningham, che trova espressione nel Rambert Event, ha molto in comune con le caratteristiche di una «dominante culturale» teorizzata in uno dei più interessanti saggi sul postmodernismo, di Fredric Jameson (Post-modernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, 1991; pp. 20-32): «la cancellazione del confine tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa […]; la comparsa di un nuovo genere di piattezza, di mancanza di profondità […]; il declino degli affetti […] potenziale decostruzione della stessa estetica dell’espressione; la sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato […] la fine di uno stile unico e personale […]; la liberazione da ogni tipo di sentimento, dal momento che non si dà più un io che possa provarlo».

Tutto ciò si esprime nella varietà morfologica del corpo di ballo, formato da singole individualità, solo in parte rispondenti ai canoni estetici classici. Pur distanziandosi completamente dalla danza classica accademica, la tecnica Cunningham richiede, altrettanto, un impegno notevole nell’addestramento fisico, teso ad aumentare l’articolazione corporea, condividendo con quella una sintassi fatta di linee pure e astratte, che sfrutta una gamma di movimenti molto più ampia, incluso il lessico accademico. I danzatori possono avere anche stature e proporzioni diverse, e d’altra parte non sono ammesse gerarchie nella definizione delle competenze del danzatore: «Sebbene siamo tutti creature che camminano su due gambe – dichiarava Cunningham – ci muoviamo in modo straordinariamente diverso gli uni dagli altri, a seconda delle nostre proporzioni fisiche e del nostro carattere. È proprio questo che m’interessa, non le similitudini tra una persona e l’altra ma le differenze, non un corps de ballet ma un gruppo fatto di singoli individui che agiscono insieme» [Merce Cunningham, La coreografia e la danza, in Merce Cunningham, a cura di Germano Celant, Charta, Milano, 2000p. 35].

Gerhard Richter “Abstraktes Bild (946-3)” 2016, © Gerhard Richter 2017

In Rambert Event, le geometrie rettangolari sullo sfondo, tavole di aspetto metallico che sembrano casualmente toccate dallo schizzo di vernici colorate, si scontrano con le linee asimmetriche e irregolari dei danzatori, punti nello spazio simili a particelle atomiche che entrano in collisione con le altre dimensioni, il suono, l’immagine, della messa in scena; elementi figurativi multicolore dai costumi ispirati alla serie di dipinti realizzati dall’artista tedesco Gerhard Richter, soprannominato dalla critica “l’artista più influente del mondo”, che a sua volta è stato influenzato dall’Espressionismo Astratto dell’americano Jackson Pollock.

Jackson Pollock, “Woodshed Art Auctions”, 1951

Anche le tele di quest’ultimo, come le coreografie di Merce Cunningham, venivano realizzate attraverso procedimenti aleatori, che da un punto di vista concettuale esautorano l’opera: la rivoluzione che Cunningham attuò nel linguaggio coreutico occidentale, grazie al lungo sodalizio con John Cage (dal ’53 alla morte di quest’ultimo avvenuta nel ’92), prevedeva infatti la combinazione del tutto casuale tra coreografia e partitura sonora, viste come due entità completamente autonome e accostabili solo per la loro durata, unite al momento della performance dal vivo. Nei due ambiti di competenza differenti, il movimento e il suono si chiarivano meglio nei loro esatti opposti, l’immobilità e il silenzio, offerti all’artista come spazi vuoti da riempire mediante l’utilizzo di qualsiasi elemento sonoro o cinetico. Una rivoluzione pari a quella che molti anni prima aveva realizzato il Dadaismo nelle arti figurative.

Se così la postmodern dance ha finito per influenzare il panorama coreutico occidentale di tutto il secondo Novecento e anche oltre, le sue radici culturali sono da rintracciarsi in Oriente, e in particolare nella filosofia Zen, che esalta l’unicità dell’istante presente. Come si legge nella Prefazione a Silenzio di John Cage (1961), che comprende articoli, conferenze e saggi composti fra il 1937 e il 1961: «Spesso i critici gridano al “dada” dopo essere stati a un mio concerto o aver ascoltato una mia conferenza. Altri deprecano il mio interesse per il buddismo zen. Una delle conferenze più stimolanti a cui sono mai stato è stata quella di Nancy Wilson Ross alla Cornish School di Seattle. S’intitolava Buddismo zen e dada. In effetti, è possibile tracciare un parallelismo tra i due fenomeni, però sia il dada sia lo zen non sono qualcosa di tangibile e prefissato. Mutano costantemente e, in posti e tempi diversi, invitano all’azione in maniera abbastanza diversa. Quello che è stato il dada negli anni venti, oggi, con l’eccezione delle opere di Marcel Duchamp, è soltanto arte. E non voglio che incolpino lo zen per quanto faccio, anche se dubito fortemente che senza il mio rapporto con questa dottrina avrei fatto quel che ho fatto».

Conseguenza, e al tempo stesso rischio, di questa modalità di composizione, che si avverte anche nel Rambert Event della compagnia britannica, vera e propria istituzione nel panorama internazionale impegnata con la messa in scena delle grandi opere della danza contemporanea, può essere una certa “freddezza”, dovuta alle espressioni neutre dei volti e alla – assai difficile per gli esecutori della coreografia – mancata concordanza ritmica tra i movimenti e la musica, dal fascino elettroacustico. Eppure, tanto è l’affiatamento sul palcoscenico e alta l’attenzione del folto gruppo di danzatori, che lo sguardo dello spettatore s’incatena. Si respira una grande libertà espressiva, richiamata da una disarticolazione curiosa, non svincolata dal contesto storico in cui le idee di Cunningham e Cage iniziarono a prendere forma, preludio all’epoca sessantottina, in contemporanea e negli stessi luoghi di quell’altro importante gruppo rivoluzionario e ancora vivo come il suo nome anche se non ci sono più i suoi creatori, il Living Theatre. Lo stile di Cunningham, oggi, attraverso la compagnia Rambert, sicuramente assai riconoscibile, porta con sé qualche elemento di novità rispetto al passato, che lo rende più prossimo e popolare, se non addirittura “svecchiato”. Non si tratta qui soltanto del coinvolgimento musicale di Philip Selway dei Radiohead, ma di una sorta di palingenesi che incontra il gusto contemporaneo. Un maggiore virtuosismo tecnico, di stampo accademico, e una minore fluidità dei passaggi vi hanno preso piede, e si riflettono in una pulizia ortodossa delle frasi di movimento. Se ciò da un lato sembra venir meno all’osservanza della purezza dello stile in cui l’indeterminatezza e l’imprecisione erano parte del gioco di creazione, dall’altro, preserva in ottima forma proprio la sua incisività, a un secolo dalla nascita del suo ideatore.

 

[Immagine di copertina: Miguel Altunaga, Hannah Rudd, Dane Hurst, Stephen Wright, Antonette Dayrit. Foto di Tony Nandi]



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