Concerti Musica

Radiohead @ Visarno Arena – Firenze

Carmen Navarra

I Radiohead sono tornati in Italia per due date, a Firenze lo scorso 14 giugno e a Monza, all’interno dell’ I-Days Festival, due giorni dopo. Per i fan si è trattato di due occasioni molto succulente considerando due eventi concomitanti e parimenti imperdibili: il ventennale di Ok Computer (1997) e l’uscita nel 2016 del nono album, A Moon Shaped Pool, “rimescolamento” di elaborazioni discografiche precedenti ed inediti (Daydreaming).

Firenze, 14 giugno 2017. Il cielo – screziato da nuvole potenzialmente minacciose – fa da sfondo alla calura già abbondantemente estiva del capoluogo toscano. Tuttavia la pioggia, in agguato per tutto il giorno, si manifesterà soltanto a concerto finito, in forma lievissima e sottile. Nell’Ippodromo della Visarno Area circa 50.000 persone si sono unite non solo in nome della musica, ma soprattutto in nome di un’idea, di un mito, di un idolo che porta sulle spalle trent’anni di carriera. Thom Yorke e i suoi (formazione completa: Jonny Greenwood, chitarra, tastiera, sintetizzatore, pianoforte; Ed O’Brien, chitarra, cori; Colin Greenwood, basso, tastiere, sintetizzatore; Philip Selway, batteria, percussioni, cori) suonano per due ore e mezza, alternando deliri rock a nenie malinconiche e riflessive, in un up and down emozionale che oscilla tra stati d’animo adrenalinici e momenti puramente onirici. Anticipati da Junun, progetto collaterale di Jonny Greenwood e del compositore israeliano Shye Ben Tzur e da James Blake, talento inglese prodigiosissimo, i Radiohead calcano le scene alle 21:30 in punto. La coreografia è elegante ed essenziale, fatta di colori più o meno sgargianti a seconda del ritmo dei pezzi suonati. Sui maxi schermi le immagini dei componenti della band sono volutamente sgranate o frammentate. Scelta discutibile considerata la mole di persone che affolla il polveroso Ippodromo; infatti i ritardatari – come la sottoscritta – sono costretti a sentirli (vederli non più) da molto lontano. Yorke è scontroso quanto basta da risultare adorabile: esordisce in medias res, ringraziando in modo quasi dimesso il pubblico. L’unica vena sarcastica che si concede e che lo “umanizza” è la sua stessa voce fuori campo che interviene di tanto in tanto tra un pezzo e l’altro, inscenando estemporanei siparietti in un italiano maccheronico. Eppure. I venticinque pezzi suonati, in una soluzione di continuità che non poteva essere migliore di quella scelta, rappresentano appieno il simbolo di quella sympátheia difficilmente raggiungibile in altri contesti: c’è perfetta sincronia tra artista e ascoltatore, si viaggia sugli stessi binari, ci si lascia guidare senza discutere se non della bellezza che non si scrolla di dosso neanche a distanza di ore (se non di giorni). Il pezzo d’apertura è Daydreaming, ma le corde vibrano di rock per quasi tutta la prima parte del live (Airbag, 15 Step, Myxomatosis), con particolare attenzione all’ultimo album (Ful Stop, Desert Island Disk); ovazioni sui virtuosismi e sulle sperimentazioni del loro passato discografico (Everything in Its Right Place, Bloom, Idioteque) con tre intermezzi alienanti e inaspettati: Lucky, Let Down, Exit Music (For A Film) da ascoltare ad occhi chiusi, respirando sommessamente, dando peso a ciascuna parola emessa e a ciascuna nota suonata. Breathe, keep breathing, don’t loose your nerve.

È trascorsa poco più di un’ora quando l’instancabile band – la cui verve è accompagnata, oltre che da un invasato Yorke, anche da un grintosissimo Greenwood che passa da uno strumento all’altro con facilità disarmante – omaggia il sedicente passato (prossimo e/o remoto): il trittico There There, Paranoid Android, Street Spirit (Fade Out), preceduto da 2+2=5 chiude in maniera encomiabile la prima parte. Sono ancora intera? Prossima alla chiusura, la band di Oxford rientra con ottimismo e – azzardo – allegria: sulle note della seppur trascurabile Lotus Flower, il pubblico balla e si diverte più di quanto non abbia fatto già, forse consapevole che di lì a poco tornerà a piangere per la bellezza di due pezzi cardine della lunga carriera dei Radiohead: Fake Plastic Trees parte da lontano (Yorke comincia a cantarla prima di suonare, creando l’effetto straniante del “ma è lei o non è lei?”) e termina all’unisono sulle devastanti e universalmente struggenti parole d’amore finali “if I could be who you wanted all the time”. Karma Police è il manifesto, l’inevitabile sipario di un live forse non memorabile, ma intenso nel suo essere (stato) introspettivo, carismatico, profondo, vitale. Sembra davvero di aver perso se stessi e non solo per un minuto.



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