Quando il teatro delle emozioni non fa l’emozione del teatro
Teatro delle emozioni. Vorrei provare a usare questa definizione per indicare un insieme di fenomeni del teatro contemporaneo italiano: il teatro di Pippo Delbono, di Emma Dante e di ricci/forte.
Circa due anni fa, qualcuno più avveduto di me (Antonio Audino, ripreso poi da Sergio Lo Gatto sul numero di Aprile, 2014, dei “Quaderni del Teatro di Roma“) ha definito “teatro acritico” quel teatro che si fa portavoce di ideali di sinistra chiamando in causa forme e modi che appartengono allo stesso modello criticato. A detta di Audino, il teatro acritico si manifesta concretamente attraverso l’utilizzo «di voci rotte, di passi di danza non danzata, di brutture fisiche e nudità onnipresenti»; mondi che ci porterebbero a dire, come ha sottolineato poi Lo Gatto, che «abbiamo a che fare con l’eterna dicotomia tra un teatro che esprime e un teatro che suscita».
Teatro acritico è quello di ricci/forte, forse anche perché nasce dall’assunto che il reale non sia penetrabile o comprensibile in alcun modo. Si limita a riprodurre in termini lacaniani l’essenza di una realtà ripetuta, priva di giudizi di valore estetico o morale. In questo senso, la realtà con cui ci si scontra è un “trauma” o, per dirla con Lacan, «un mancato incontro con il reale». In scena il corpo è reificato, l’oggetto scenico decontestualizzato, la realtà pare alimentarsi dello zapping televisivo senza passare attraverso l’esperienza sensoriale; la scrittura del testo è, sì, una fictionalizzazione dell’autentico vissuto dei performer, ma lo sguardo spersonalizzante del regista, come nelle serigrafie pop di Andy Warhol, ricompone, in una dimensione spazio-temporale cristallizzata, materiali biografici, fonti letterarie ed elementi quotidiani, utilizzando il procedimento del mash-up. Eppure, la scelta congiunta di una recitazione che alterna un’intensità drammatica modellata su un forte realismo alla pronuncia con tono sommesso e grave di un testo dalla struttura frammentaria, unita alla frequente riproduzione di brani che solleticano le aree corticali, sortisce l’effetto di una presa emotiva, quasi viscerale, sullo spettatore, nonché la fidelizzazione di un certo tipo di pubblico non frequentatore abituale delle sale teatrali.
Vorrei qui, però, soffermarmi su un altro aspetto del teatro acritico, che mi porta a chiamarlo non senza un po’ di ironia “Teatro delle emozioni”. Un grande insieme, quello del “teatro delle emozioni”, dentro il quale c’è anche il “Teatro delle emozioni che non fa emozionare”.
Perché “teatro delle emozioni” se poi dentro c’è il teatro che non fa emozionare?
Innanzitutto, per la banalità dell’espressione.
“Emozione” è una parola tanto bella quanto abusata, soprattutto dagli spettatori entusiasti di aver assistito a spettacoli degli artisti sopracitati (e i critici dovrebbero avere molta parsimonia nell’utilizzarla).
In Vangelo – presentato in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma – esattamente come in altri lavori, Pippo Delbono, insieme alla sua compagnia formata tra gli altri da personaggi-interpreti che chi ha già familiarità con la sua produzione conosce bene (il problema è che ogni volta ce li ripresenta come se fosse la prima volta: Bobò, Nelson e Gianluca Ballarè), mediante un linguaggio quanto più immediato possibile, mette lo spettatore di fronte a un’opera che combina temi autobiografici e universali: morte, religione, amore, sesso, malattia. Spiega a modo suo l’importanza dell’amore, della verità e della libertà individuale, evocando nel complesso la parabola di tutti coloro che hanno provato a credere in qualcosa, ma alla fine si sono trovati a contare solo sulle proprie forze. Nel narrarla, l’attore e regista ligure descrive la presenza del profano nel sacro e del sacro nel profano citando qualche episodio evangelico in mezzo a Pasolini, S. Agostino e Prèvert, e chiamando in causa in video o sul palcoscenico testimonianze del tempo presente che non riescono a convincere lo spettatore fino in fondo. L’unica doccia fredda dello spettacolo consiste nella rivelazione di alcune informazioni scottanti sul suo passato: il racconto di come da fedele chierichetto della Chiesa cattolica, quale era quasi più per non dispiacere sua madre, decise di avvicinarsi al buddhismo, ma da lì alla fine dello spettacolo sono tanti i temi sfiorati, sempre con la stessa – appunto – totale mancanza di approfondimento.
Il palcoscenico diventa, quindi, la solita passerella per la rappresentazione di minoranze, individui solitari e ai margini della società, riducendo la performance a un trash show da Corrida televisiva che non restituisce alcuno sguardo critico, poetico, sul reale.
All’inizio, la scena mostra undici eleganti sedie rosse su cui vanno a sedersi, vestiti in abito da sera, uomini e donne che interpellano lo spettatore con la loro irremovibile, fredda frontalità, mentre un uomo, una specie di maggiordomo o servo di scena, cammina su un lato del proscenio imitando movimenti assai raffinati, modulati su una gestualità intima e quotidiana, come togliersi polvere dalla giacca o spolverare il telo del sipario aperto uscendo di scena: una delle tante scene à la Pina Bausch (senza neppure metà della forza e della bellezza che contraddistinguevano il teatro-danza della grande danzatrice e coreografa) alle quali più avanti fa da contrappunto la voce di Delbono amplificata al microfono che, durante la lettura di testi sparsi su fogli di carta, fa uso del solito tono pacato che vira in crescendo verso le urla da mostro famelico.
La lettura di testi poetici e autoriali in platea combinata alla messa in scena semplificata di riti bauschiani resta la formula perfetta, in pratica, del teatro di Pippo Delbono.
Abbiamo poi citato Emma Dante. Il teatro di Emma Dante è per certi versi accostabile a quello di Delbono per l’affronto di tematiche universali e la costruzione di immagini simboliche a metà tra teatro e danza, sogno e realtà. Anche qui, la presenza invasiva della musica detta lo stato emotivo allo spettatore, in modo analogo a come in un film commerciale la colonna sonora commenta una scena particolarmente drammatica. Se quindi anche il teatro della compagnia Sud Costa Occidentale di Emma Dante fa leva sul sentire comune con mezzi semplici e ammiccanti come la musica, bisogna in compenso dire che la presenza di scelte precise a livello stilistico denotano una ricerca e una padronanza di competenze tecniche che non ha nulla da invidiare a una compagnia internazionale. Pur nella sua immediatezza, Emma Dante riesce a portare in scena mondi poetici che sublimano un contesto non sempre facile o scontato.
Il discorso sul “teatro delle emozioni” andrebbe sicuramente ampliato e occorrerebbe più spazio per esprimere una posizione netta al riguardo. Resta il fatto che i tre fenomeni citati appartengono al nostro tempo, come vi appartengono, insieme – per fare un esempio che riguarda il panorama musicale italiano – un Giovanni Allevi o un Ludovico Einaudi, tanto amati dal grande pubblico anche se viaggiano su due binari diversi.
Nel primo caso, il teatro di ricci/forte (ma bisognerebbe andare a osservare il singolo spettacolo), non troviamo disonestà intellettuale (tranne quando strizzano l’occhio a Rodrigo Garcìa), non si pretende di formulare un giudizio sulla realtà, soltanto di rovesciarla entro certi codici che ben riflettono il mondo in cui viviamo. Nel secondo, tanto meno, grazie al lavoro infaticabile di regia. Per quanto riguarda Pippo Delbono, la disonestà risiede nella delusione delle aspettative costruite dalla “prima visione” di un suo spettacolo, un colpo di fulmine per chi sta scrivendo (nel mio caso fu Dopo la battaglia, ma con il senno di poi se fosse stato La notte o Il silenzio non ci sarebbe stata alcuna differenza). Delbono sembra oggi peccare di “paternalismo” per non confessare faglie e sentirsi così legittimato a ripetersi. Forse è stanco di ricercare: quello che si vede è quello che significa, non c’è tentativo di astrazione in un linguaggio. Nella maniera più didascalica possibile, il bisogno d’amore è un abbraccio (analogamente, aveva tutta un’altra forza la scena, bellissima, degli abbracci e cadute reiterate di Café Müller della grande Pina); Nelson in posizione cristologica, con braccia aperte e polsi fermati da manette con alle spalle una sorta di muro di ferro che avanza meccanicamente verso il proscenio, un martire. Oppure, è il caso di dire, una vittima sociale nelle mani di un artista “vate” che dovrebbe vedere e mostrare l’invisibile, ma che in fin dei conti non riesce a fare a meno di parlare a se stesso e di se stesso (oltre che di sua madre). Ecco perché, allora, il teatro delle emozioni non sempre fa l’emozione del teatro. Come la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte genera l’effetto della sua perdita d’aura, ogni volta che un artista come Delbono si ripete c’è un po’ di emozione che se ne va… e non si sa mai se tornerà.