Proton Theatre // Imitation of Life
di ANDREA ZANGARI e MARIA D’UGO
Abstract
There is a certain kind of plays which put the viewer in front of a tangible manifestation of time. A mirage that makes the public aware of taking part in a world-wide synaesthesia with those who are on stage. It is such a kind of theatre that spreads over the space-time: dilatating it, reassembling it, sometimes suspending and transforming it. This is the merging point we are led to by “Imitation of Life”, according to the European press the Proton Theatre masterpiece. A play directed by the Hungarian Kornél Mundruczó, on stage at the Arena del Sole in Bologna on March 1st and 2nd as a part of the XIV edition of VIE Festival by ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.
An almost half-an–hour projection runs on the large square screen in the center of the scene. In a humble interior, a woman in her sixties is chased by the questions of an interlocutor hidden behind the camera. The man tries to ascertain if the woman’s identity coincides with that of the apartment occupant. The reason for the visit is the imminent eviction: the man is there on behalf of the company managing the social building itself. On the edge of a presumable chasm, she is forced to accept the identification. Lőrinc Ruszó, of Roma origin, a widow and mother of István Ruszó. Embracing her own name means diving into the vertigo of a life torn to misery from the palm. An overwhelminglyintense confession of pain is thrown onto the audience, culminating in the image of the naked corpse of her husband, who was dragged by a train a few hours after his son István’s escape from home. An escape from one’s own ethnic identity. The intensity of the story and the realism of the image pierce the screen, empowered by the unconscious assumption that the video material is a documentary prelude. Yet, right after a pitiless, progressive zoom on Lőrinc’s face, the screen suddenly rises up: the narrative climax leaves room for surprise. The shabby room of the popular block of flats is an en abyme set, raised and included in a cubic volume reminding a huge cathode ray tube television. The video turns out to be live recorded (or maybe not?), as suggested by a portable camera on a tripod, lit near a man’s back. Mundruczó reverses the initial perspective: the imitation of life demands purity and rigour, in a short circuit between reality and realism.
What appears perhaps as the highest moment of the public eye capturing, is the complete overturning of the cubic volume that houses this reality paradoxically more real than the real itself. Forced to follow the room in its slow rotation, we witness the ruin of an interior from which finally all themetaphoric debris emerge. On the impressive plot twist, a narrative gap is inserted. Lőrinc is dead; the house, freed, is granted to Veronika and to her young son Jónás. Another family, another shipwreck.
The question raised by the commingling of languages, which lay one upon the other with quiet constancy, and by the perturbation of perceptive order, aims straight at undermining the very margins of fiction. What is the fiction here? Nothing, in so far as the adopted codes enhance all that is representation, but firmly attached to its internal life. The same news that inspired the Hungarian director is in fact sublimation of fictions, counterfeits and attempted inventions. We learn it at the end,thorough a video projection that echoes the initial one: Budapest, 2015. A boy wounds a Roma coetaneous. In the country of Orban’s controversial leadership, demonstrations against xenophobia take place. Yet, the same assailant is discovered to be of Roma origin. “Imitation of life” unfolds as an investigation into the possible life of the guilty: István Ruszó, the son of Lőrinc. Fled from home butreturning home because of a dark cyclicity captivating to an incoercible misery. There, appearing like a ghost chasing ghosts, he finally meets Jonas. In his own way, he tried to imitate a life.
C’è un teatro che pone lo spettatore di fronte ad una manifestazione sensibile del tempo. Come se la durata dello spettacolo diventasse un dato materiale, parte integrante e percepibile del piano d’ascolto. Un miraggio che rende il pubblico consapevole del suo esserci, e del prendere parte con chi è in scena a quel mondo di cui il palco si fa sinestesia. Un teatro che sul tempo e sullo spazio si distende e li dilata, li riassorbe, a tratti li sospende e li trasforma, ridisegnando le coordinate dello sguardo che vi si posa. Catturato, questo ne asseconda il movimento. A questo punto di fusione ci accompagna la visione di Imitation of Life, considerato dalla stampa europea il capolavoro del Proton Theatre, diretto dal regista ungherese Kornél Mundruczó e portato sul palco dell’Arena del Sole di Bologna l’1 e il 2 marzo nell’ambito della XIV edizione di VIE Festival di ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.
Per una buona mezz’ora una proiezione scorre sul grande schermo quadrato al centro della scena. In un umile interno, una donna sulla sessantina è incalzata dalle domande di un interlocutore dietro la videocamera. L’uomo cerca di appurare se l’identità della donna coincida con quella dell’abitante morosa dell’appartamento. Il motivo della visita è lo sfratto imminente: l’uomo è lì per conto dell’impresa che gestisce lo stabile popolare. Sull’orlo del presagibile baratro, la donna è costretta ad accettare l’identificazione. Lőrinc Ruszó, di etnia rom, vedova, madre di István Ruszó. Abbracciare il proprio nome è per Lőrinc tuffarsi nella vertigine di una vita strappata palmo a palmo alla miseria. Dal video è vomitata sul pubblico una confessione sbranata di dolore, che culmina nell’immagine del cadavere nudo del marito, morto trascinato da un treno poche ore dopo la fuga di casa del figlio István. Una fuga dalla propria identità etnica, dal colore della propria pelle odiata sin dall’infanzia. L’intensità del racconto e il realismo dell’immagine bucano lo schermo, veicolati dall’inconscia assunzione che il materiale video sia un preludio documentaristico. Intanto nella nostra coscienza si addensano riferimenti mediatici, paure e pregiudizi, ma altra è la coscienza che immediatamente ci viene restituita: questa ha la forma meno scenica e più cronachistica dei giochi di potere con cui certa spinta ideologica di estrema destra (serpeggiante in area Visegràd, ma non solo) forza la collettività, verso una deriva di intolleranza e prevaricazione sempre più pervasiva.
Magnetizzati dal crudo primo piano fisso su Lőrinc, l’uso della lingua originale ungherese non limita la comprensione. I sopratitoli in italiano e inglese scorrono a video senza che lo sguardo si tormenti a correre fra testo e immagine: le tre proiezioni colpiscono piuttosto come un polittico digitale di volto e parola, in cui volto di donna è sottoposto ad una spietata analisi che ne documenta i tic, la bava fra le labbra, il colorito ceruleo della pelle invecchiata. Poi, su uno zoom che dilata l’occhio e inchioda la coscienza, lo schermo si alza all’improvviso: il climax narrativo lascia spazio alla sorpresa. La squallida camera del caseggiato popolare è una scenografia en abyme, rialzata e inclusa in un volume cubico che ricorda un enorme televisore a tubo catodico. Tutto il video era in presa diretta (o forse no?) come denuncia una telecamera portatile su treppiede, accesa vicino ad un uomo di spalle. Mundruczó rovescia la prospettiva tracciata nel preludio: l’imitazione della realtà reclama purezza e rigore. Nell’attimo dell’alzata dello schermo, sprofonda e converge tutto l’universo di Imitation of Life. È un sipario che si alza in medias res; è una lente d’ingrandimento che, spostata, restituisce ad un fenomeno la sua scala naturale. È cortocircuito fra realtà e realismo. Così Imitation of Life si rivela quale acutissima indagine sul guardare, condotta con un raffinato armamentario multimediale e una eccelsa prova attoriale. Sugli schermi dei sopratitoli si alternano frammenti video che rammagliano le vicende della casa con gli eventi esterni, oltre alla proiezione delle chat che impegnano i personaggi. Il flusso simbolico si moltiplica inglobando la virtualità della comunicazione e dissestando i tempi della narrazione. Nasce un contrasto prolifico tra la multimedialità e il solido iperrealismo scenografico: l’interno domestico è costruito con dovizia di particolari, fino ai cavi anneriti e rugginosi di una lavatrice. La luce che filtra da un bovindo sul fondale descrive naturalisticamente l’alternanza giorno-notte. Non manca nemmeno la pioggia vaporizzata che bagna la povertà della vita imitata sulla scena. Un effetto che evoca matericamente la realtà della pioggia-segno, che qui cade a cavallo tra l’appartamento e il proscenio, bagnando “noi” e “loro”.
Segno è anche, in quello che forse è il momento più alto in cui si invera la cattura dell’occhio del pubblico, il completo ribaltamento del volume cubico che ospita questa realtà così paradossalmente più reale del reale stesso. Costretti a seguire la stanza nella sua lenta rotazione, assistiamo alla rovina di un interno da cui finalmente emergono – nello strazio di un ritorno “in posizione” che non è ritorno al punto di partenza – detriti, scarti, macerie. Sull’impressionante colpo di scena, s’innesta uno scarto narrativo: Lőrinc è morta, la casa, liberata, viene concessa a Veronika e al giovanissimo figlio Jónás. Altra famiglia, altro naufragio. Mundruczó prosegue la caratterizzazione di personaggi al margine della società: nel caso di Veronika, il margine emotivo di una giovane madre sola, appesa al dialogo con un amante-stalker assente in scena, ma presente nelle chat video-proiettate. Non oltre, ma a cavallo di quel margine sociale ed esistenziale sta il personaggio di Mihály Sudár, trait d’union dell’intreccio. È l’agente della prima scena, è colui che introduce Veronika nell’appartamento, siglando il contratto. Figura costruita nel segno dell’indecifrabilità, corresponsabile di un disegno blandamente corrotto e discriminatorio, ma anche disponibile a porgere orecchio alle difficoltà di Lőrinc e Veronika.
L’interrogativo suscitato dalla commistione dei linguaggi, che si stratificano l’uno sull’altro con quieta costanza, e dal turbamento dell’ordine percettivo, punta dritto a minare i margini stessi della finzione. Perché qual è, qui, la finzione? Nessuna, nei termini in cui i codici adottati potenziano tutta quella che è rappresentazione, ma saldamente agganciata alla sua vita interna. Una vita al di là dell’imitazione che altro non è se non la sua possibilità di tracciare infinite strade a partire da baratri. Un “di più” di esistenza che il codice del teatro traduce dal materiale che ha osservato a sua volta. Lo stesso fatto di cronaca che ispira il regista ungherese è infatti un’ambigua matassa di finzioni, contraffazioni, tentativi di invenzioni. Lo apprendiamo sul finale, in una videoproiezione che fa eco a quella iniziale, evidenziando come la complessa operazione registica di Mundruczó non disdegni ordine e struttura. Nel 2015, a Budapest, un ragazzo ferisce un coetaneo rom. Nel paese della controversa leadership di Orban, scattano manifestazioni contro la xenofobia. Senonché si scopre lo stesso assalitore essere di etnia rom. Imitation of Life si dispiega come indagine à rebour nella vita possibile del colpevole: István Ruszó, il figlio di Lőrinc. Fuggito di casa, che a casa fa ritorno nel finale come per un senso oscuro di ciclicità che avvince a una miseria incoercibile. Qui incontra Jónás, apparendo come un fantasma che insegue fantasmi. Anche lui, a suo modo, ha provato a imitare una vita.
[Immagine di copertina: foto di Marcell RÉV]