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Il proiettore delle memorie

Redazione

Vivo per l’immagine e di immagine. È ciò che esclama sfumatamente e allo stesso tempo a spada tratta Valerio Aneppi, lungo la storia de Il proiettore delle memorie, primo romanzo di Matteo Alberto Sabatino pubblicato da Schena Editore, nonché vincitore del XXIV premio nazionale “Valerio Gentile”.

Già dalle esigue righe dell’incipit, si scorge il lavoro, la passione, i pensieri ed i ricordi del suddetto protagonista, accomunate dalla personale apologia per l’immagine; non soltanto in relazione alla professione di fotografo, ma anche verso tutta la semiologia e la semiotica delle immagini, sia analogiche – quelle della vita quotidiana – sia digitali, ossia quelle delle arti visive.

Un incipit non come introduzione scolastica, altresì come preludio ad una concatenazione narrativa – oltre che come una prolessi de-classicizzata -, si direbbe nel gergo cinematografico una “sequenza cruciale” a stretto contatto con il resto dell’opera, pure con l’epilogo (tale aspetto, per giunta, non è onere di questa critica, bisogna invece delegarlo alla semplice lettura del racconto).

Su tutti, un interrogativo probabilmente ha assillato lo scrittore e assilla il lettore: cosa vuol dire vivere di immagine?

La risposta non è univoca, eppure ha dei tratti significativi che l’autore – anche se è il protagonista in prima persona a narrare – tenta di estrapolare immergendosi nelle caratteristiche superficiali (intese come dati tangibili) del protagonista, per poi arrivare in profondità: cosa comporta e cosa consegue vivere attraverso l’immagine; come e se è possibile un connubio tra realtà ed immaginario; se possono le immagini aiutare a comprendere se stessi e a dare un senso alla rispettiva vita; infine, come potrebbero essere razionalizzate le immagini in ognuno di noi, ergo assegnare un ruolo alle arti. Che sia Terapeutico? Nostalgico? Didascalico? Umano?

Forse tutti questi, soltanto uno, oppure nessuno. Ciò è inconcludente, proprio perché le immagini hanno di per sé valore in primis soggettivo, quindi creano relazione biunivoca, non multilaterale. Valerio se ne rende conto assaporando l’esperienza dipendente nella sala “in diebus nostris”(altro tassello da approfondire attraverso la lettura). Quel tema allora del doppio e della percezione, caro ad Edgar Morin riguardo la saggistica sull’uomo immaginario.

Il cinema non è un semplice intruso, poiché il libro di Sabatino risulta di aura cinematografica non esclusivamente per il titolo dichiarativo “Il proiettore delle memorie”, altresì per la sala, che è una sorta di personaggio (un po’ come accade col tubo catodico della tv nel Vineland di Thomas Pynchon). Per il linguaggio moderno da period drama. Per alcune parti della struttura narrativa – a partire dal citato incipit – che rimembrano lo stile di una sceneggiatura (eppure guai a paragonare i romanzieri agli sceneggiatori).

Considerato l’excursus, è lecito attendersi che Il proiettore delle memorie sia un romanzo cosparso di introspezioni, di visione ed analisi maniacali su ogni dettaglio della vita quotidiana: dalla preparazione del caffè con la moka, fino alle caratteristiche più impercettibili di molteplici contesti. Caratterizzato inoltre da un protagonista, il quale si fa prendere in braccio dalla nostalgia. Eppure, attenzione, perché la nostalgia come dice il Don Draper di Mad Men (AMC, 2007 – 2015) “è una macchina sottile ma potente”, dato che prima o poi i conti con la realtà bisogna pur farli; non si può soltanto fuggire e vivere nel passato, in quello che era o in quello che sarebbe stato. Su ciò non avrebbe nulla da obiettare chi ama il Midnight in Paris (2011) di Woody Allen.

D’altronde, Valerio Aneppi vive nell’insoluto, non riesce proprio a fare i conti con la realtà, oppure se tenta lo fa sempre a modo suo, ossia attraverso gli sguardi, i silenzi, il pensiero, il non-detto, il vorrei ma non riesco ed utilizzando gesti puri, che una società materialistica e schematica fa fatica a recepire.

Restano le delusioni, tra le quali il rapporto sterile con la compagna Elisabetta e quello affascinante eppure arduo da stabilizzare con la nuova fiamma Veronica. Restano anche i rapporti profondi, come quelli con Flavio, perché qui il dialogo e la frequentazione zio – nipote divengono ancora più intense e senza limiti, anche più di quelle possibili tra padre e figlio, le quali forse soffrono di una sindrome gerarchica e di una costituzione dei ruoli, che le bloccano in un limbo.

Resta la bellezza, ossia inquadrare e subodorare ogni aspetto della realtà, ogni momento che si passa, ogni felicità intesa come attimi, ogni porzione di spazio visibile e non visibile, eppur vivibile. Una narrazione About Time (2013) – per riprendere il titolo di un film delizioso di Richard Curtis –, o ancora about us, about our time.

Federico Fellini diceva che – i primi film di un regista sono sempre quelli più personali, infatti I Vitelloni (1953) è esemplificativo. Chissà se tale assunto valga anche per gli scrittori, quindi per un esordiente come Sabatino. Di certo, il primo romanzo ne dimostra una mania invidiabile per i dettagli, per la descrizione di ogni elemento scenico, ovvero di tutto ciò che si interpone all’occhio del protagonista. Inoltre, c’è una cura sensibile della trama (seppur adattando aforismi deleuziani alla letteratura qui ci sia poca scrittura-azione e molta scrittura-affezione), dato che ogni aspetto della storia ritorna e ha valore ben preciso.

Vari pezzi, che unendosi al crepuscolo della lettura costituiscono un puzzle rigoroso, frutto di una scrittura attenta, sfumata, immersiva e con uno stile ben definito, che per neo-autori è già di per sé un successo.

“Stile ben definito” appunto, che è collegabile alla questione dell’autorialità, perché lo scrittore non vuole assolutamente quello che si definisce oggi in gergo seriale un fan service, non vuole – almeno non solo – che ci si immedesimi in Valerio, che si provi pena per lui, che egli diventi un archetipo, un eroe, un anti-eroe o un mentore. Valerio è un essere umano, con più difetti che pregi ma un topico essere umano, che si confida col lettore come se fosse un amico o una persona di fiducia, che estrapola sensazioni per tentare di definire la logica di un universo caotico, di un’umanità imperfetta, della società e del mondo cognitivo. Ciò avvicina velatamente Sabatino allo stile (non è da intendersi un paragone qualitativo) di scrittori come Philip Roth per esempio, soprattutto ai romanzi Everyman e La Macchia Umana.

Quando ci si accinge al libro dalla copertina e si legge Il proiettore delle memorie, di primo acchito il pensiero – anche per relativa foto – va ovviamente al cinema, a qualcosa di artefatto. Eppure il proiettore siamo noi, siamo letteralmente L’uomo con la macchina da presa (Dziga Vertov, 1929), “gli occhi del dio dei segmenti remoti”.

Gli occhi scelgono cosa guardare, cosa percepire, cosa apprendere, cosa scartare, e ancora cosa dire/esprimere. Valerio col binomio occhi-mente esteriorizza sé stesso: cosa è, cosa era, cosa potrebbe essere e non sarà mai.

 

 

 

 



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