«Il progetto dell’universo è la vita: per questo vale la pena essere immortali»
Come può l’arte provare a cambiare il mondo o, almeno, la sua percezione?
Dovrebbe essere la domanda primaria, alla base di qualsiasi intervento, per un artista che sia degno di chiamarsi tale. Con il passaggio su questa terra, Giuliano Scabia non solo, con l’umiltà che lo contraddistingueva, si era posto la domanda, ma ci ha anche fornito la risposta.
Scabia è stato e continuerà a essere un modello insuperabile della nostra cultura. Un poeta rivoluzionario della pratica teatrale che ha illuminato il cammino dei teatranti in contesti di disagio sociale, che ha fatto della teatralità uno strumento di liberazione individuale e collettiva. «Il progetto dell’universo è la vita: per questo vale la pena essere immortali», disse a conclusione del suo intervento per il Convegno Ivrea Cinquanta organizzato a Genova da Teatro Akropolis dal 5 al 7 maggio 2017 per i 50 anni dallo storico convegno che in un’epoca di grande entusiasmo e volontà di cambiamento sociale riunì numerosi artisti accomunati dal rifiuto delle convenzioni del teatro istituzionale o di regia per riconoscere la nascita di un nuovo linguaggio, di una nuova sintassi della scena. Lo stesso Scabia trovò in quella sede un momento per interrogarsi sul senso del proprio lavoro artistico, e quindi sulla vita stessa delle persone protagoniste di quel mutamento estetico.
Ovunque sia passata la sua figura di artista, dalla fine degli anni Sessanta in poi, e indifferentemente dal luogo in cui ha operato, Scabia ha seminato il Teatro, e lo ha fatto in modo assolutamente naturale, spontaneo, secondo un metodo induttivo, sperimentando le azioni e le tecniche attraverso cui poter intervenire sulla realtà. «Presi l’Università come fosse stato un teatro…», raccontava a Marco De Marinis nel 2017 a Genova, con quella straordinaria umiltà e lucidità di analisi che lo caratterizzavano.
Scabia, un po’, il mondo lo ha cambiato. Marco Cavallo, il cavallo azzurro di legno e cartapesta con cui i “matti” del manicomio di Trieste uscirono il 25 febbraio 1973 in corteo fuori da quelle mura che li tenevano confinati per legge, è ancora oggi in tutto il mondo il simbolo di una lotta al contempo etica, sociale, medica e politica che si pronunciava a favore della chiusura dei manicomi, ovvero di quei luoghi in cui avere disagi psichici comportava l’emarginazione. Cinque anni dopo quell’esperienza nel manicomio di Trieste, il sogno diventò legge, la cosiddetta Legge Basaglia: grazie ad essa finalmente si restituì la dignità di persone ai pazienti psichiatrici. Quella dignità che per troppo tempo era stata calpestata e negata.
Qualsiasi artista del tempo presente che oggi operi in ambito socio-sanitario non può non tenere conto dei risultati raggiunti attraverso Marco Cavallo e altre esperienze analoghe condotte dallo stesso Scabia. Per lavorare con le comunità fragili, diceva Giuseppe Bartolucci, «c’è bisogno in ogni occasione di cominciare da capo, definire il proprio spazio, ruolo, non dar niente per scontato, perché c’è da legittimare ogni volta la propria esistenza. E puntualmente la definizione precedente risulta inadeguata rispetto all’ansia di identificazione». (1)
Quello della necessità di ridefinire incessantemente la propria funzione e di essere in grado di comunicarla all’interno e all’esterno dell’ambiente operativo, è stato un problema molto avvertito durante i due mesi di laboratorio svolto nel 1973 da Giuliano Scabia su invito di Franco e Vittorio Basaglia per i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale San Giovanni di Trieste. Volantini e un “giornale murale”, realizzati dagli ospiti a volte con la partecipazione curiosa dello stesso personale sanitario, erano distribuiti ogni giorno nei vari reparti della struttura allo scopo di informare con colori e poche parole quanto stava accadendo e di lì a poco sarebbe accaduto: Marco Cavallo e il suo corteo di ospiti sarebbero usciti nelle strade per incarnare un esempio di libertà, mostrando come gli ospedali sarebbero potuti essere “aperti”. Proprio perché certi teatri d’animazione sociale necessitavano, e necessitano tuttora, la consulenza o l’affiancamento di esperti, operatori in campo medico che monitorino l’agire del conduttore, Scabia sentì l’esigenza di scrivere un diario che documentasse dettagliatamente l’esperienza, le difficoltà riscontrate e i risultati raggiunti, per sottoporlo all’attenzione degli stessi medici. Fra quelle pagine, pubblicate per la prima volta da Einaudi nel 1968 e poi da Alpha Beta Edizioni, confessava con grande umiltà e intelligenza dubbi, incertezze, a testimonianza del carattere sperimentale di una sfida che non riusciva a definire né strettamente “terapeutica” né del tutto artistica e verso la quale, comunque, avvertiva di dover incarnare idee, posizioni – con il beneficio del ripensamento – separate da quelle dello specialista medico. «Noi siamo «artisti» (recitiamo la parte di «artisti»). Loro sono i medici», scriveva, e così raccontava:
Io non sapevo se procedevo bene o male. Ho sentito come naturale dialogare a quel modo. E la presenza del medico, che a un certo punto come a lasciare più possibilità al dialogo, si è allontanato, è stata rassicurante. In questo lavoro i medici sono un punto di riferimento importante soprattutto in quanto ci possono dire: questo malato è così e così, ecco la sua storia: e questo ci aiuta a trovare modi diversi di avvicinarlo. Più che una verifica psichiatrica (in fondo noi non stiamo facendo, nelle intenzioni, un lavoro terapeutico) la loro è una indicazione di rapporto, di atteggiamento. Anche se noi siamo completamente diversi da loro. Noi siamo «artisti» (recitiamo la parte di «artisti»). Loro sono «medici». E quindi la nostra comunicazione coi malati è molto diversa dalla loro. Soprattutto è «vissuta» dai malati come diversa.(2)
Partendo dai blocchi emotivi di persone affette da disturbi psichici più o meno gravi, e assai diversificati nella loro fenomenologia, il primo obiettivo perseguito da Scabia fu quello di condurli verso l’espressione. Lo fece prendendo in considerazione prima di tutto l’ambiente in cui malati venivano quotidianamente inseriti: cercando di ribaltarne i segni, fondandone di nuovi, suggerendo immagini e drammatizzando tutto ciò che si manifestava in modo spontaneo. L’arrivo di un nuovo ospite, una voce inaspettata, la presenza di determinati oggetti a disposizione: gli imprevisti, anche quelli più spiacevoli (come, a un certo punto, il danneggiamento o la distruzione di materiali che erano stati realizzati, per mano di un paziente ribelle), davano luogo a nuove riflessioni e stimoli creativi. «Perché di solito c’è un rifiuto a esprimersi? […] nel manicomio avviene una riduzione sempre maggiore di ogni capacità espressiva. “Dentro” si acquista una natura diversa, che è la natura del manicomio (cioè dell’istituzione). Come si colloca il nostro lavoro?»(3), si domandava Scabia, che con la sua esperienza e la sua storia – proseguita trent’anni dopo, nel 2003, dentro e fuori l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino – istituì le basi per una nuova lingua scenica, definendone strumenti, limiti e possibilità, incoraggiandone la diffusione e gli sviluppi. Una lingua che sarebbe stata da approfondire, ma che già allora parve ben avviata considerati i tempi, basata sull’utilizzo di schemi vuoti (piccoli canovacci), in uno spazio trasfigurato e riempito con un carro vagante che trasportava insieme agli ospiti, fuori dal manicomio, l’emblema di un riscatto morale.
Importanti strumenti, ancora, sono stati i «burattini»: costruiti grazie a qualsiasi tipo di materiale e forma, proiezioni dei tanti Sé reticenti del malato con cui provare ad aprire un dialogo.(4) Tutti gli elementi e i linguaggi che compongono il lavoro di animazione nel corso di questa occasione, insieme a una serie di consigli accorati, sono elencati numericamente in appendice al volume di Marco Cavallo. La pittura, il disegno, la drammatizzazione, il canto, la poesia. Furono usati persino degli strumenti musicali a percussione, il cui utilizzo rispondeva a una necessità di impronta sociologica, non estetica, perché per entrare nelle vite di corpi feriti e tormentati bisognava innanzitutto ricrearla la vita, trasformarla in qualcosa di differente da come normalmente appariva, rompendo la cornice ostile dell’ambiente clinico: «C’è bisogno di strumenti musicali. Bisogna arrivare nei reparti come banditori. Entrare come una presenza “diversa”».(5) Altro strumento indispensabile fu una pedana di legno: «un luogo deputato minimo» che, consentendo al soggetto di porsi in una condizione “altra”, di rappresentazione e di ascolto, divenne il «luogo della comunicazione per eccellenza».(6)
Giuliano Scabia conferì un volto estetico a questa esperienza nella misura in cui reinventò il suo ruolo, vivendo la propria presenza in modo critico. Fu uno sperimentatore, in quella, e nell’altra importante e simile avventura di trent’anni successiva, definita “Il Drago di Montelupo”. (7) Sicuramente i suoi meriti alla costruzione di una lingua scenica appaiono anche a distanza di così tanti anni incommensurabili e per questo sarebbe limitativo definire “animazione teatrale” qualcosa che è andato ben oltre il gioco, la pedagogia, la costruzione di identità, e persino la necessità terapeutica, per quanto possa valere il teatro come terapia quando si pone la terapia stessa come il fine da perseguire. Valga per lo spazio ciò che vale per il corpo: come nei teatri delle diversità il “limite” fisico o cognitivo può diventare un’occasione creativa («L’ossessione del limite è il grande nemico del teatro, mentre l’arte del costringimento fa capire dove la libertà si può manifestare» (8), affermava Claudio Meldolesi), così Scabia nella sua esperienza di decentramento teatrale trasformò i limiti istituzionali dei luoghi in delle occasioni creative. Si comprende bene – dalle parole che commentano alcune riprese video (9), del laboratorio e del giorno in cui Marco Cavallo uscì nelle strade – la sottile insoddisfazione nei confronti dell’operazione da parte dello stesso Scabia, dovuta allo scarso potere decisionale conseguente a un confronto molto serrato con i medici. Eppure davanti a tutto questo c’era anche da leggervi un eccesso di modestia: Scabia non dissimulava mai le difficoltà di un lavoro, un lavoro che, occorre bene sottolinearlo, non aveva nessun precedente in Italia. Proprio questa difficoltà dovrebbe portare chiunque a ragionare sulla portata dei suoi effetti, sul cambiamento realmente avvenuto, che sono enormi se si tiene conto del fatto che la sua memoria si è riproposta nel tempo in diverse forme. Non è errato affermare che quanto realizzato con Marco Cavallo abbia acquistato valore, tra le altre cose, dal fatto di aver segnato una svolta importante in un tragitto che sembrava impervio, su cui, da un punto di vista storico e geografico e almeno a livello pratico e rispetto all’ambito in questione, si stavano muovendo i primi passi.
A differenza di tanto teatro che ancora oggi si dichiara “artistico” e che giocando con le possibilità di relazione con lo spettatore, con il dispositivo scenico, cerca di fargli vedere l’illusione di un cambiamento reale che poi, però, finisce insieme all’evento teatrale, un’esperienza comunitaria, di teatro dilatato, come Marco Cavallo – di origini assai più umili si potrebbe dire, e che nemmeno puntava alla “terapia” – è riuscita non solo a intercettare la Storia, il proprio tempo, il cambiamento, il “sogno” basagliano, ma anche a generare effetti concreti sull’individuo, a portarlo fuori, e in alcuni casi persino a curarlo, trascinando la sua immaginazione ben al di là di quanto fosse possibile prevedere. Senza contare, poi, che le difficoltà che furono percepite da Scabia all’interno dell’ospedale psichiatrico sono comuni ancora oggi, e lo saranno sempre, a quelle di molti altri artisti che lavorano nel teatro sociale, e che egli, in un modo o nell’altro, senza nessun precedente termine di paragone, riuscì in ogni caso a superare: il dovere di confrontarsi con il gruppo di monitoraggio del progetto, di adeguarsi ai nuovi arrivati nella struttura e di studiare gli handicap di ciascuno di essi per cercare di interpretarli in forma creativa. Da qui, anche, l'”immortalità” di Giuliano Scabia: la grandissima eredità, morale, intellettuale, umana, che ci ha lasciato.
*(1) Giuseppe Bartolucci, Decentramento a Roma 1973-1977, “La scrittura scenica/Teatroltre”, n. 18, Bulzoni Editore, Roma, pp. 7-8.
*(2) Giuliano Scabia, Marco Cavallo. Un’esperienza di animazione in un ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1976, p. 39.
*(3) Ivi, p. 91.
[Immagine di copertina: Baracchi-Campanini]