“Il principio di Archimede” o la difficoltà di restare a galla sotto la spinta dell’opinione comune
Non tutti, forse, conosceranno quella perla cinematografica danese che è Il sospetto di Thomas Vinterberg, vincitore di alcuni premi e una nomination agli Oscar nel 2012 come Miglior film straniero, dove un educatore di un asilo nido dapprima ben rispettato da tutti si ritrovava accusato di pedofilia per le reazioni sospette di una bambina. Il principio di Archimede, pièce di Josep Maria Mirò messa in scena per la prima volta in Italia il 15 febbraio scorso, ricorda moltissimo quel film. Al centro, in apparenza, il tema della pedofilia. Presto, però, il testo cede il passo a una questione più complessa, che riguarda il modo in cui ci rapportiamo agli altri quando, senza prove abbastanza fondate, tra noi e l’immagine positiva di una persona s’insinua il dubbio di un episodio terribile, nascosto dietro il volto di una possibile menzogna. Dove inizia la verità e dove comincia la paura del sospetto? Quando un reato di pedofilia non è altro che la paura del reato stesso, alimentata dai media e da una realtà “costruita”? Se un fatto spiacevole è accaduto intorno a noi è opinione comune che possa accadere anche a noi, nei luoghi di nostra frequentazione: secondo questa visione del reale, anche un semplice sospetto si fa condanna.
Nel prezioso allestimento del regista Angelo Savelli, anche traduttore del testo con la collaborazione di Josep Anton Codina, le domande che il testo dell’autore catalano pone al lettore vengono a coincidere con quelle della collettività, qui riunita attorno all’azione scenica. Perché, appunto, la prima bella idea messa in atto in questo allestimento, tra l’altro il primo italiano grazie al centro di produzione teatrale Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi di Firenze dove lo spettacolo è andato in scena dal 15 al 25 febbraio, consiste nella disposizione degli spettatori su due lati del luminoso spazio scenico (luci di Alfredo Piras). La presenza di due platee, l’una di fronte l’altra, restituisce una condizione di disagio necessaria per i temi trattati, e consente agli spettatori di osservarsi, di sentirsi ugualmente parte di una vicenda che potrebbe accadere a chiunque in qualsiasi momento. In modo assai coerente con la materia del testo, dunque, Angelo Savelli cala gli attori in un territorio tra due confini, come la verità (sempre nel mezzo), e in uno stato di forte prossimità con gli spettatori. Con interpreti così vicini, il rischio sarebbe stato quello di vedere una performance piena di sbavature, e invece, al contrario, il regista, aretino ma con probabili radici in una sensibilità da tradizione novecentesca napoletana, ha accolto la sfida curando la recitazione con meticolosità e potenziando al massimo il realismo dello spazio scenico, che quasi in modo “eduardiano” ricostruisce l’ambiente di uno spogliatoio di una piscina pubblica nei minimi dettagli: una doccia da cui sgorga il vapore; un pavimento identico a quello che ci si aspetterebbe in una struttura sportiva, con rivestimenti in gomma antiscivolo; panche, armadietti. Proprio questi ultimi, gli armadietti, aggiungono particolari significativi alla vita dei personaggi, a ben vedere necessari, perché ciascun dettaglio in apparenza banale potrebbe essere un indizio della complessa psicologia del personaggio.
Oltre alla suggestione spaziale, l’altra caratteristica affascinante risiede nel tempo narrativo, non lineare: ogni scena si conclude interrompendo la narrazione come in una soap opera, creando un effetto di suspense, per poi riprendere il suo naturale corso due scene dopo, producendo per alcuni istanti l’effetto ricercato del déjà-vu; tra due scene consecutive dal punto di vista dell’intreccio, il racconto fa un passo indietro e diventa flashback per mostrare lati di un carattere che influenzano l’opinione dello spettatore, che, anche a livello etimologico, è un soggetto che formula “aspettative” su ciò che vede.
La regia, curiosamente televisiva nel montaggio delle scene, con bui e suoni di nastri che si riavvolgono come nelle sitcom, ci trascina in un enigma senza risposta, un rompicapo tanto più avvincente quanto più nitidi e numerosi sono i dettagli aggiunti all’esistenza dei personaggi: chi è Jordi (interpretato da Giulio Maria Corso, noto per essere stato protagonista accanto a Lorella Cuccarini nel musical “Rapunzel”), l’istruttore di nuoto accusato di aver calmato con un «bacio diverso», sulle labbra (così era stato riportato da una bambina-testimone ai suoi genitori), il pianto di Alex, un giovanissimo allievo che non voleva buttarsi in acqua senza ciambella? L’opinione, individuale o collettiva, diventa la vera protagonista della pièce. Non a caso, nulla è come sembra. Nel nostro presente veloce, l’opinione viaggia alla velocità del cyberspazio, dove le affermazioni, vere o false che siano, hanno tutte la stessa importanza. Le tesi sono castelli fragili su improbabili fondamenta: che cosa ne vogliamo sapere noi, dell’altro, quando tutte le informazioni “necessarie” passano su uno schermo, un giornale o tramite una persona rispettata da tutti? La direttrice della piscina, Anna (Monica Bauco), agli occhi di un genitore preoccupato sembra mantenere il controllo della situazione senza avere cognizione di che cosa comporti essere un genitore; e invece, proprio la sua vita da madre ha alle spalle un trauma che l’ha segnata nel profondo: «Lei non può capire», la ammonisce il padre (Riccardo Naldini) di un allievo, andando a toccare un tasto dolente nella memoria di Anna, come se l’empatia di una persona, poi, si misurasse in “genitorialità”.
Non solo le parole e i flashback compongono il profilo dell’”imputato”, ma anche gli armadietti dello spogliatoio, con scritte disegnate a pennarello, poster sul retro delle ante, fotografie personali, figurine, oggetti che in modo ambiguo – ma, in quanto prove, mai abbastanza schiaccianti per lo spettatore – concorrono ad avallare la tesi dell’accusa, mossa verso Jordi dai genitori dei suoi allievi, e il sospetto del suo collega Hector (Samuele Picchi, bravo quanto fotogenico attore formatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia); che in modo inconsapevole funge da detective, permettendo di scoprire nuovi aspetti del reale, ponendo a Jordi domande che sono quelle di tutti, pubblico compreso.
Coinvolgente come un thriller, spiazzante e prepotentemente attuale, Il principio di Archimede, facendo riferimento alla legge fisica che consente a un corpo di restare a galla, ci ricorda in senso figurato quanto può rivelarsi faticoso, doloroso, stare in acqua e non annegare sotto la spinta burrascosa dell’opinione comune. Uno spettacolo che meriterebbe una bella circuitazione, di essere visto così come ci si guarda allo specchio.
Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 23 febbraio 2018
PUPI E FRESEDDE – TEATRO DI RIFREDI
IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
di Josep Maria Miró
traduzione e regia Angelo Savelli
con Giulio Maria Corso, Monica Bauco
Riccardo Naldini, Samuele Picchi
scene Federico Biancalani
luci Alfredo Piras
foto Pino Le Pera