Primavera dei Teatri // la rivoluzione, destino di Primavera
Può capitare di passare e guardare, catturando con l’acume di un’istantanea il senso di una scena frammentata, parziale, ma per ciò stesso eloquente. Abbiamo trascorso due giornate alla ventesima edizione di Primavera dei Teatri, il 27 e il 28 maggio, immersi pro tempore, ma verticalmente, nel flusso settimanale del progetto che porta in una delle regioni più periferiche d’Italia il vento fresco del dialogo fra i linguaggi della scena. Quello sguardo lo abbiamo posato su sei spettacoli della kermesse (di cui cinque prime visioni) che ben hanno evidenziato la volontaria assenza di un indirizzo tematico, o di una volontà curatoriale soverchia che anteponga una certa idea di teatro all’irriducibilità delle scene. Unico margine disciplinare: la consueta attenzione per la nuova drammaturgia, un gusto per la scrittura che contraddistingue da sempre il lavoro di Scena Verticale, compagnia padrona di casa e direttrice artistica del festival coi suoi fondatori Saverio La Ruina e Dario De Luca. Ben venga questa duttilità tematica, se è vero che la vetrina festivaliera favorisce l’incontro tra un’arte ed un pubblico da formare, proprio grazie all’eterogeneità dell’offerta, che produce, all’uscita dalle sale, reazioni altrettanto diversificate. E si porrebbe qui uno spunto critico parallelo, volto a interrogare, con strumenti scientificamente più certi di quelli che qui si troveranno per ragioni di brevità e di pertinenza, il legame ormai più che maggiorenne fra il festival e il suo territorio. Dinamiche a volte diversissime da quelle intessute all’interno del cortocircuito di produzione e critica: diverse, dopotutto, in ogni città, ma tanto di più sull’Altipiano del Pollino dove, a parlare con gli esercenti, con gli anziani seduti ai bar o con gli studenti universitari in attesa del bus che li riporti alle città, molto spesso il teatro è ancora quello dialettale, o il cabaret delle feste di paese. Tra una parola e l’altra, muovendosi fra la Sala Consiliare della Castrovillari post-unitaria e l’antica Civita con la struttura conventuale che ospita il Teatro Sybaris, sorge la curiosità: quale immagine avrebbe restituito in pellicola Vittorio De Seta, l’immenso documentarista che a questa Calabria montana ha volto più di uno dei suoi penetranti sguardi? Quale paesaggio avrebbe visto, nelle intercapedini tra i corpi degli spettatori e i palcoscenici, tra il suono della parola e l’architettura, tra e il teatro e il territorio?
“Alfonsina Panciavuota”. Foto di Francesca Mu e Davide Pioggia
Ciò che in quegli scorci noi abbiamo colto ha l’effettiva consistenza di un filo rosso, che non avvince il repertorio entro confini “stilistici” o etichette di genere, ma assume l’immagine di tre esili sagome nerovestite. Tre figure femminili, non protagoniste, che ritornano in due degli spettacoli cui abbiamo assistito: Alfonsina Panciavuota di Teatro dell’Armadio e La ragione del terrore di Teatro Koreja. Tre donne di buona famiglia, anzi della famiglia più ricca del paese in entrambe le pièce, calate in un Novecento che nel primordiale meridione potrebbe essere uno, due o più secoli anteriore, non fosse che per quei riferimenti alla lotta di classe che pure accomunano le narrazioni. Tre silhouette severe e persino crudeli, come tratteggiate dalla stessa penna, che non appaiono mai sulla scena se non per bocca dei protagonisti che le avversano. Identico anche il loro destino: trucidate dalla folla degli ultimi che nei loro corpi vede il simulacro di un potere beffardo e ben più radicale della dialettica sociale. Un potere che, per suggestione iconografica, s’approssima piuttosto alla posa mitologica delle Moire. Un filo rosso che dunque assume il nome e l’andamento irrefutabile del destino, a sua volta strettamente legato al tema dell’identità per perenne contrasto.
Sono due drammaturgie d’intensa poesia quelle, rispettivamente, di Fabio Marceddu, che ne è anche interprete, e Michele Santeramo; drammaturgie in cui il realismo sociale del racconto e il fiabesco si fondono nella forgia di una lingua attenta all’accento locale (il sardo per Marceddu, il lucano per Santeramo), ma sempre e solo per restituire il calore di un’immaginazione facentesi corpo, mai per intenti filologico-dialettali. Nell’opera di Marceddu, diretto da Antonello Murgia, cogliamo quella recitazione a cavare, tesa nella ricerca di un’energia delicata in costante contrasto con la crudezza degli eventi, che è anche la cifra sublime dei ruoli femminili di Saverio La Ruina. Nel lavoro di Santeramo, diretto da Salvatore Tramacere, la parola viaggia a ben più alto volume e si fa paesaggio: quello aspro delle gravine apulo-lucane, rimbombato nelle caverne di tufo in cui per millenni s’è mossa un’umanità mezz’animale, dal destino uniforme rotto infine solo dalla modernità che non tollera il terrificante buio della grotta. Assenza totale di luce nel cui fondo s’accuccia un fantasma di donna cui dà corpo Maria Rosaria Ponzetta, che non proferisce mai parola ma segna una presenza tanto più verbosa col suo millesimale sguardo malinconico. Del funesto racconto si fa carico il marito, un Michele Cipriani dalla presenza scenica a dir poco generosa e magnetica. Entrambi imprigionati nella scenografia en abyme della loro casa, una scatola disegnata con taglio prospettico esasperato, deformante, terribile come il punto di vista di chi vi abita. Una prospettiva certamente non logico-razionale, ma piuttosto disegnata da altra ragione: quella, appunto, che comprende in sé il terrore.
I conflitti sociali visti da questi sguardi rivolti al passato, si ripercuotono in altri due lavori che immaginano invece la soglia tra il presente e la sua proiezione distopica: The speaking machine della Compagnia Ragli e Noi non siamo barbari di Scena Nuda. Il primo lavoro è parte della rassegna Europe Connection, progetto teso a compaginare le drammaturgie europee e la realtà regionale, in collaborazione con PAV – Playwriting Europe. La scrittura dell’autrice catalana Victoria Spunzberg, tradotta da Davide Carnevali, è in fecondo equilibrio fra la dimensione scenica, tarata sulla misura attoriale, e tirate più letterarie. Una bipolarità che però è tutta nel tema, restando dunque pregnante: la macchina parlante è un automa femminile, la bravissima Dalila Cozzolino, dama di compagnia acquistata a prezzo d’occasione per via delle gambe fuori uso, che sublima il suo funzionalismo robotico leggendo Kafka alla ricerca dell’emozione nel linguaggio. È, cioè, una macchina piena di desiderio: Spunzberg esplora la necessità del parlare come dato umano irriducibile alla mera funzionalità meccanica. Per farlo dispone il paradosso di una non-umanità più umana dell’umano, umiliata da una controparte umana che invece degrada nell’animalità di appetiti pelvici e collerici in salsa pornografica, portati in scena dal convincente Antonio Tintis e dall’androgino e beffardo Antonio Monsellato. Al di là dei significati, resta piacevolmente viva nella traduzione l’effervescenza della lingua catalana, che tracima qui e là, eccede il piano visivo ed ogni altro connotato scenico, rafforzando l’impressione di un teatro di parola che è tale per amore delle parole, le quali potrebbero avere una vita altra, autonoma.
Noi non siamo barbari è un altro testo straniero, del drammaturgo tedesco Philipp Löhle, efficacemente tradotto in un’incessante forma dialogata tra due coppie, Mario e Barbara (Saverio Tavano e Teresa Timpano), Linda e Paul (Stefania Ugomari di Blas e Filippo Gessi). La conflittualità che abita tutti i lavori di cui stiamo parlando qui si fa intreccio, specchio dell’io che nella scrittura si interroga. Un indefinito avventore dalla pelle nera – ancora il nero che ammanta l’imperscrutabilità delle figure del destino – non compare mai in scena, ma regola tutti i rapporti della finzione. La disamina acquisisce velature filosofiche, quando si riveste l’unico oggetto scenico, un tavolo (svedese, ça va sans dire), di funzioni eterogenee che illuminano la fragile consistenza dell’identità: un bunker, un televisore, l’arma di un delitto. Nel simbolo della convivialità si possono insidiare le pulsioni di attacco e difesa, di comunicazione e di silenzio, ovvero le polarità fondamentali dell’essere, quale che ne sia il livello di civiltà. Noi non siamo barbari acquisisce così l’accento di un interrogativo, che coglie in pieno la mente (più che il cuore) degli spettatori grazie alle prove ineccepibili del quartetto di Scena Nuda. Un lavoro che ammicca all’uso cinematografico della parola, e che ancora nella parola si delinea e si compie.
“The speaking machine”. Foto di Angelo Maggio
Anche in Semi. Senza infamia e senza lode di Stivalaccio Teatro è possibile scorgere la natura intimamente tragica del conflitto fra destino e identità. Uno spettacolo molto pop, messo in scena nel segno della commedia dell’arte e sotto maschere grottesche “a metà tra graphic novel e satira espressionista”. Un divertentissimo montaggio di micro-parodie su temi televisivi, social mediatici, letterari. In fondo, però, vi è anche una riflessione amara sulla guerra per difendere ciò che in potenza contiene, guardacaso, proprio le identità a venire: i semi. Una banca dei semi sperduta in un paesaggio nevoso è protetta da soldati che incarnano prototipi della cultura popolare, quali il compunto maggiore del Nord e lo scansafatiche pusillanime meridionale, ma rimandano anche ai grandi ritratti bellici del neorealismo. Due eco-terroriste improvvisate ma ferventi assaltano la base, con un finale surreale e che suscita più di una riflessione politica.
Persino l’opera più distante dai linguaggi sin qui ricordati, più prossima alla performance e debitrice dei repertori delle arti visive, ci ha parlato della tragedia dell’identità. Immagina un paesaggio eroico, della compagnia di origine ateniese – ma dal cast internazionale – Nova Melancholia, porta in scena una rapsodia poliglotta sulle lettere dal carcere di Rosa Luxemburg. La scrittura delicatissima è montata in un incastro di immagini eterogenee, evocanti gli stilemi del costruttivismo sovietico e le pratiche della body art. Un flusso a volte un po’ scolastico, ma che sfiora molti dei temi sinora indicati. Rosa Luxemburg, come l’Alfonsina di Fabio Marceddu, preconizza una rivoluzione gentile (e di genere), fatta di parole performate. In entrambi i casi, ed in certa misura in tutti quelli ricordati, il lavoro sulla scena indaga il disastro della storia nel suo compiersi sul corpo dei deboli: vinti ma vittoriosi, sublimati nelle scritture che dalle loro vicende, vere o immaginarie, traggono un respiro lirico. Salutiamo Castrovillari immaginando un paesaggio eroico, che appare brullo e arcaico come il Pollino. Sono passati vent’anni, e Primavera dei Teatri continua la sua rivoluzione gentile.
[Immagine di copertina: concept e realizzazione ufficio stampa – Valeria Bonacci, Rosa Guarnacca, Emilio Lo Feudo, Giorgia Simonetta]