Prima danza, poi pensa
Teatro, film, radio, televisione. Samuel Beckett, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1969, ha spaziato fra i media sperimentando nuove tecniche narrative, riducendone il linguaggio ai minimi termini. Sbaglia però chi crede che alla base del pensiero di Beckett ci sia l’inazione. Un testo come Breath, vera e propria sintetica partitura d’azione, seppur minimale, necessita di essere “performato”, la parola ha bisogno di esprimersi attraverso la performance. Nel biopic uscito in Italia il 1° febbraio Prima danza, poi pensa di James Marsh, regista di film biografici di successo come La teoria del tutto, il movimento insito nella poetica dello scrittore irlandese si riflette nella dualità rappresentata dal protagonista maturo che dialoga con se stesso (interpretato impeccabilmente da Gabriel Byrne); due Beckett in uno spazio psichico desolato, metafisico, che si confrontano l’uno l’altro su sentimenti ed errori commessi, come se fossero fuori scena, dietro le quinte. Viene in mente la beckettiana «unspeakable home» citata in Neither (trad. Né l’uno né l’altro), l’opera lirica (definita una short prose) poco conosciuta di Beckett, musicata da Morton Feldman – in Italia ne ha realizzato un adattamento multimediale Studio Azzurro –, che contiene, a detta dello stesso autore, la quintessenza del suo pensiero; il testo comincia così: «su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna / dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé […]» (traduzione di Gabriele Frasca), parole che ci rimandano anch’esse a uno sdoppiamento, al dualismo tra affermazione e negazione, verità e illusione, conscio e inconscio.
Eppure resterà deluso chi dal film di James Marsh aspetti di incontrare o sapere di più sulla produzione beckettiana, mentre forse convincerà chi, partendo da una conoscenza personale delle opere del drammaturgo, desideri scoprire qualcosa sulla sua vita privata. Le opere compaiono pochissimo e sempre in una misura funzionale alla comprensione delle vicende sentimentali o comunque relazionali dello scrittore – vero obiettivo del film di Marsh – determinate anche dal rapporto disfunzionale con la figura materna, connessione sottolineata in maniera fin troppo didascalica. Assistiamo, per esempio, alla genesi di Commedia (Play, 1962), pièce in cui tre personaggi, un uomo, sua moglie e la sua amante, hanno il corpo bloccato dentro a delle grosse urne, feticci che preludono a uno spazio sospeso tra la vita e la morte, su cui un solo fascio di luce assurge al ruolo di quarto attore spostandosi ora su un capo ora su un altro, per conferire a ciascuno di essi la facoltà di parola; così, allo stesso modo, lo spettatore viene informato del lungo lavoro compiuto da Beckett alla BBC, dove lavorava Barbara Bray, giornalista e critica che sarebbe stata per decenni la sua amante, emittente televisiva per cui Beckett realizzò drammi appositamente pensati per la televisione o adattamenti per il piccolo schermo delle proprie opere teatrali.
Da Lucia, danzatrice figlia di un maestro per Samuel Beckett quale James Joyce, affetta da disturbi mentali, e che amava Samuel ma da questi non era corrisposta, a Susanne, che di Samuel divenne moglie e faro per la sua carriera, a Barbara, le donne dello scrittore sono, almeno nel film, linfa vitale, figure indispensabili e di grande sostegno senza le quali, ed è lo stesso protagonista con gratitudine ad affermarlo, non sarebbe riuscito a emergere come uno dei più grandi autori del secolo scorso. Con un racconto per immagini – ma soprattutto parole – evocative, il film ricompone i pezzi femminili nel puzzle dell’esistenza di un genio della letteratura, consegnando allo spettatore una visione introspettiva, poetica e anche un po’ romanzata della vita del drammaturgo, e lo fa con una sceneggiatura raffinata (di Neil Forsyth), ossequiosa del mood che contraddistingueva le opere beckettiane. Tuttavia, il titolo del film, nonostante la citazione dello stesso autore, resta abbastanza fuorviante.