Premio Scenario 2019: le ferite dell’io e i suoi mondi possibili
di Andrea Zangari e Maria D’Ugo
Giunto alla sua XVII edizione, per la sua fase finale il Premio Scenario si è presentato a Bologna in una partecipatissima cornice festivaliera, bissando l’edizione di Cattolica del 2018, che allora aveva un cartellone rivolto esclusivamente all’infanzia. Dall’1 al 6 luglio i dodici corti finalisti hanno dunque trovato il loro palcoscenico presso il DAMS Lab, rinnovata cittadella delle arti, luogo simbolo del legame che negli ultimi anni l’Università di Bologna ha saputo stringere con la cittadinanza e la comunità studentesca. In questo senso è degno di merito, e ci pare più che doveroso ricordarlo, il fatto che tutti gli spettacoli fossero visionabili a titolo gratuito, e che la sala fosse sempre gremita di volti giovani. Se è questa l’alba di una nuova formula per l’ormai riconosciuto e ambiro Premio rivolto alle nuove generazioni del teatro, nessun dubbio sull’intento di perseguire un’idea di comunità artistica che provi piano piano a tradursi in azioni concrete, nel momento in cui viene data la possibilità all’ideazione scenica di confrontarsi contestualmente con una platea, peraltro anagraficamente affine alle compagini sul (e dietro) il palco.
«Comunità» che pure, comunque e sempre, può crearsi «non su un podio, ma nelle strade, nelle piazze, nei centri occupati», così come ricordato da Chiara Bersani nell’informale e toccante TALK che ha preceduto l’assegnazione dei premi. Dunque una comunità che si allarga, per ritrovarsi anche negli appuntamenti serali con la stessa logica di gratuità, riaccogliendo come ospiti alcuni fra i vincitori e partecipanti delle passate edizioni: il sarcastico Davide Enia, con il suo ironico invito a evitare di vincerli, i premi, i Babilonia Teatri e la carica sempre dirompente del loro teatro pop, le sottili capriole linguistiche delle drammaturgie dei Fratelli Dalla Via, gli ibridi performativi di Anagoor e la fierezza ben piazzata di Liv Ferracchiati e The Baby Walk, quest’ultima compagnia vincitrice ex aequo proprio della scorsa edizione.
Fra messinscene, premiazioni, restituzioni della critica e susseguenti polemiche, quest’anno Scenario ha offerto una più che mai ricca occasione di riflessione sullo stato dell’arte; ma poiché il Premio nasce con l’intento di valorizzare non ciò che è ma ciò che potrebbe essere (e quanti mondi possono dischiudersi nel passaggio dai venti ai cinquanta minuti), di seguito tentiamo, più che soffermarci a pesare la validità dei singoli spettacoli che sono comunque processi aperti, non finiti né cristallizzati, uno sguardo che attraversi la materia osservata nella sua coralità; consapevoli che questa prospettiva sia familiare anche ai linguaggi di Scenario, inclusa in vario modo negli esiti drammaturgici e scenici di alcune delle compagnie vincitrici delle passate edizioni, ma consapevoli anche di una prossimità anagrafica di chi scrive con gli artisti impegnati. Di fronte alla rosa di temi trattati ed emozioni portate in scena, ci sentiamo infatti compartecipi di occhi, menti e cuori che hanno fatto esperienza di realtà per lo stesso lasso di tempo.
Uno dei tratti evidenti di questa edizione di Scenario è parsa una sorta di depotenziamento e debolezza nella ricerca del come dire rispetto al cosa dire: tutte le visioni hanno gridato una ferita del teatrante-uomo che precede quella del teatrante come ricercatore di un linguaggio formalmente autonomo. Se una simile ferita, visibile e aperta, caratterizza comunque tanto teatro contemporaneo, specie di “taglio giovane”, è pur vero che nel passaggio dall’umano all’“umano sulla scena” il rischio è sempre quello che vengano infine privilegiate delle forme che, pur non mancando di coraggio, si mantengono in equilibrio su una china di sicurezza, preservando quella cortina opaca che divide palcoscenico e platea. Non si tratta solo del mantenimento di un certo tipo di canone teatrale, ma anche di uno sbilanciamento verso un’autoreferenzialità senza echi per chi com-partecipa, da spettatore, alla scena. Non mancano, tuttavia, felici tentativi di far germogliare quel grido personale, per sublimarlo in un atto condiviso. E così a suo modo colpisce, per esempio, Mezzo chilo di Serena Guardone, prodotto imperfettissimo che proprio dell’impresentabilità dell’imperfezione fa la sua poetica. Un’apostrofe autobiografica diretta al pubblico, la confessione della bruttura di un disturbo alimentare che condanna a una vita di perenne finzione davanti all’altro. Operazione borderline che è valsa la segnalazione speciale della giuria, un teatro-verità sul proprio corpo che sfida il paradigma dell’estraniazione che presiede a ogni lavoro sul personaggio (anche quando il personaggio è il sé). Allo stesso modo colpisce Il colloquio del collettivo LunAzione, forse la formula scenica più solida e dall’idea più forte: un trittico di mogli partenopee in fila davanti al carcere, in attesa del convegno coi mariti detenuti. Uno spettacolo intriso di melanconia che dipinge un Sud, ed un sesso, ancora e sempre subalterno. Le tre Parche tessono il filo che le lega inestricabilmente ad un maschile invisibile perché dietro le sbarre, ma tanto più presente nella dittatura dell’assenza. Paradosso che incrocia con calcolata efficacia quello degli attori di sesso maschile in ruoli femminili. A Il colloquio è andato il Premio Scenario Periferie, altra novità di questa edizione, che rinnova l’esplicita volontà dell’Associazione Scenario di promuovere l’attenzione verso le emergenze sociali e l’impegno civile, in una riformulazione del Premio per Ustica in auge dal 2003. Quest’anno ben sei spettacoli su dodici hanno concorso per la categoria, ma è pur vero che la distinzione è meramente formale. Se periferico è un movimento che porta dal centro verso il fuori, tutti i giovani in finale hanno seguito questa direzione. Lo ha fatto per esempio Emilia Verginelli con il collage di realtà di Io non sono nessuno, nel racconto della sua esperienza di educazione teatrale nelle case-famiglia della capitale; lo hanno fatto i giovanissimi attori del collettivo casertano Mind the step, con Fog, un claustrofobico ritratto della povertà emotivo-culturale della gioventù ai tempi delle dirette social. Un riflesso inevitabile della politica di stampo Facebook e dell’accessibilità della pornografia, che senza intenti moralistici costruisce con lessico quotidiano una drammaturgia spiazzante, violenta, in crescendo, supportata da prove attoriali convincenti.
Fog. Foto di Malì Erotico
Lo stesso vincitore del Premio Scenario, Una vera tragedia di Favaro/Bandini, è dopotutto un lavoro sui margini del linguaggio teatrale, un tentativo d’estensione del potere evocativo del drama oltre il legame meccanicistico fra testo e immagine. Un iridescente quadrato erboso evoca l’universo domestico borghese, un pratino all’inglese che nella cura maniacale del manto cela il brulicare di un’essenza tanto più ostile quanto più sotterranea e dissimulata. Come nell’incipit del lynchiano Blue Velvet, col suo emblematico zoom su un giardinetto che, da vicino, mostra il suo humus verminoso e febbrile. Presagio della “vera tragedia”, che parte con l’evocazione della sfera famigliare: in scena un padre, Vater (Alfonso De Vreese), e una madre, Mum (Petra Valentini), nomi stereotipici in tedesco e in inglese, che attendono fra il cerimonioso e l’isterico il ritorno di un figlio per cena, probabilmente un incontro a lungo atteso; appare Chico (Alessandro Bandini), che si rivela a ritroso non essere proprio il figlio, ma una figura altrettanto prossima, vomitata da un passato illogico e delittuoso. Il testo intanto scorre in proiezione sul fondale: possiamo leggere o ascoltare, ma ad un certo punto parola scritta e parola pronunciata divergono, mentre il discorso mina incessantemente la possibilità di una trama. Una vera tragedia colpisce per il sovraccumulo di tropi sovvertiti, che rendono elettrizzante il tempo d’ascolto: il target è chiaramente il linguaggio di forme narrative altre rispetto al teatro, recependo l’urgenza di intervenire sul livello d’attenzione di un pubblico avvezzo sempre più al thrilling dei format seriali. Un progetto “linguistico” chiaro, al netto di una complessità tutta diegetica. Appaiono però eccessive le formulazioni critiche che esaltano il lavoro come una messa in crisi dei meccanismi stessi della rappresentazione: piuttosto ci si sente di fronte all’introiezione di un’ottica decostruttivista, che ha forse plasmato più altre arti che non il teatro. Risuona il verbo foucaltiano: la scrittura e le cose non si somigliano.
A questo punto viene da aggiungere un tassello ad un tema già ricordato da altri, inerente la geografia tracciata da Scenario. C’è molto Sud sulla scena, ed è sempre un dato che rincuora, a fronte di un circuito produttivo indubbiamente meno articolato. Ma ciò che colpisce ancor di più è una certa compattezza di temi che taglia in due lo Stivale: quasi tutti gli spettacoli generati al Nord vertono su problematiche dell’individuo di fronte a se stesso e al suo linguaggio (sebbene, ovviamente, con una ricaduta sociale). Un’attitudine all’individualità, ma non all’individualismo, che si stempera in coralità e attenzione civile procedendo verso Sud: elementi leggibili tanto nei referenti socio-culturali che presiedono il momento teatrale (la vita di strada dei “vasci” napoletani evocati in Sound sbagliato della compagnia Le Scimmie), tanto nelle costruzioni coreografiche sulla scena. Come nell’esempio della schiera di braccianti e caporali vista in Sammarzano di Ivano Picciallo/I nuovi scalzi, questo davvero un piccolo capolavoro di possibilità di visioni, da ribaltare con le armi di un’attorialità forte e consapevole dei suoi strumenti e della sua tradizione, che scanzonata guarda fuori da sé senza superficialità e intesse relazioni dirette con la sua platea. Sul versante opposto, si può ricordare Bob Rapsodhy dell’attrice di formazione milanese Carolina Cametti, che condensa nel suo corpo febbrile il peso di una partitura fisico-verbale tesa a riempire la scena tutta. Qui si tematizza con acume drammaturgico il disagio contemporaneo del linguaggio d’amore, linguaggio dell’individuo colto di sorpresa da una solitudine che si parla addosso e si racconta con la rapidità di chi non vuol essere lasciato solo per non sentire il vuoto. Proprio il linguaggio è valso al lavoro la menzione speciale della giuria, per quanto resti forte un’impressione di rischio rispetto a una scena chiusa su se stessa e sulla propria introspezione, senza possibilità né di sorpresa né di relazione.
Sammarzano. Foto di Malì Erotico
Al di fuori di queste orbite “territoriali” sta l’interessante Anticorpi di bolognaprocess, risultato di un processo di ricerca dal respiro marcatamente europeo: la compagine italo-greco-francese ha dato veste scenica all’indagine, quanto mai attuale e urgente, sull’emersione delle nuove destre nel Vecchio Continente. Lo spettacolo mescola interviste, analisi sui mezzi di comunicazione e brani autobiografici, partendo dal genere del teatro-documentario ma procedendo con raffinata discrezione a giocare con diversi livelli di comunicazione. I bolognaprocess si divertono a farci ragionare sulle dinamiche contraddittorie di giochi e finzioni tutti politici, per ribaltarli e smascherarli sulla scena con grande e piana lucidità: così anche le parole di Marine Le Pen possono diventare un ottimo spartito per un rap che sembra emergere dalla profondità della banlieue francese.
In nome di quella coralità che abbiamo voluto come primo motore di riflessione, la finestra aperta dal Premio Scenario sulla varietà caleidoscopica di linguaggi, tematiche e codici che animano la nuova generazione under 35 che si affaccia sulla scena teatrale contemporanea, non si chiude. Resta invece ancora spalancata, non solo nell’attesa degli esiti compiuti dei lavori vincitori, che troveranno il loro punto di arrivo in autunno, ma anche per permettere che questo stesso articolatissimo transito di voci a cui si è potuto compartecipare si trasformi nella vera materia cui prestare attenzione e cui riconoscere importanza e valore. Perché al di là di un riconoscimento istituzionale, sia quella stessa generazione a farsi comunità, così come nell’amorevole esortazione lasciata da Chiara Bersani alla platea dei partecipanti in attesa dei risultati, nel momento di ricordare e ricordarsi che «non si è soli».
[Immagine di copertina: Collettivo LunAzione/Il colloquio. Foto di Malì Erotico]