Pistoia TEATRO Festival: la r-esistenza della bellezza oltre la ferita
Mentre la stagione dei festival avanza da nord a sud dell’Italia, facciamo un passo indietro e ritorniamo all’inizio dell’estate, al Pistoia TEATRO Festival.
Mentre la stagione dei festival avanza da nord a sud dell’Italia, facciamo un passo indietro e ritorniamo all’inizio dell’estate, al Pistoia TEATRO Festival. Nella Capitale Italiana della Cultura 2017 si iniziano infatti a programmare gli eventi per il 2018, per proseguire, nelle parole del nuovo sindaco Alessandro Tomasi – salito a capo dell’amministrazione proprio all’indomani della conclusione del festival – l’«effetto Pistoia Capitale», puntando a pochi grandi eventi, possibilmente con la collaborazione di sponsor privati.
Sembra allora necessario ricordare che cosa ha rappresentato la prima edizione del festival organizzato dall’Associazione Teatrale Pistoiese e diretto da Rodolfo Sacchettini, e come esso sia riuscito a essere “grande” nel tradurre l’immaginazione in realtà, offrendo alla cittadinanza quasi due settimane di festa del teatro e della teatralità diffusa, per un’occasione di partecipazione attiva che ha sposato il coinvolgimento totale degli spazi, teatrali e non.
Oltre alle performance ideate da Virgilio Sieni di cui abbiamo già detto altrove, in una chiesetta, quella di San Michele in Cioncio, abbiamo visto “profanarsi” la storia di due fratelli ne La ferita della bellezza. Giacinto (Annibale Pavone) e il cantante Atto Melani (Massimo Grigò, da cui nasce anche l’idea dello spettacolo): uno dei personaggi più ambigui della Francia seicentesca, e amato alla corte di Luigi XIV, che per mezzo del cardinale Mazzarino iniziò a essere spinto verso gli intrighi del tempo, diventando confidente dello stesso Re Sole.
Dalla scrittura originale di Luca Scarlini e la regia di Giovanni Guerrieri, viene fuori, così, il doppio ritratto dai toni scanzonati di una società retta su valori dell’epoca che mal si conciliano con i desideri individuali. Gli spettatori, complice l’atmosfera evocata dal luogo, siedono separati al centro da un piccolo corridoio per consentire il passaggio degli attori e assistono allo scontro verbale fra i due in qualità di silenziosi astanti, fino a un finale forse non del tutto calibrato pathos nelle ultime battute di Giacinto, personaggio fino a quel momento dalla corazza burbera. Accompagna lo spettacolo, che omaggia per certi versi il più grande genio musicale dell’epoca, J.S. Bach, nella cui musica prende vita la sintesi delle due anime antitetiche del pensiero dominante – cioè la ratio e la fede religiosa – una partitura sonora eseguita dal vivo da Manuel Gelli al clavicembalo, strumento che iniziò ad avere molta fortuna all’epoca.
Da un Luigi sovrano di Francia passiamo a un altro, il predecessore Luigi XIII, con i fantastici personaggi che hanno contrassegnato l’immaginario del tempo: i moschettieri di Alexandre Dumas (padre), nel “radiodramma animato dedicato a Nizza e Morbelli” de I Sacchi di Sabbia prodotti dall’Associazione Teatrale Pistoiese, dal titolo I 4 moschettieri in America. Come in un collage a tre dimensioni, si stagliano su un paesaggio dagli stilemi pop le figure dei quattro moschettieri strappati al loro contesto di appartenenza e scaraventati negli anni Trenta del secolo scorso.
Il mondo in cui sono improvvisamente catapultati Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan, s’ispira alle avventure parodistiche contenute nel radiodramma a puntate di Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, che tra il 1934 e il 1938 impressero una svolta decisiva alla storia italiana del mezzo radiofonico realizzando una trasmissione che sarebbe diventata un vero e proprio cult.
Dato che «cappa e spada non si portano più», agli eroi letterari tocca inventarsi altro per sopravvivere alle insidie del mondo moderno: tra mille peripezie, tentativi di suicidio falliti e inseguimenti dei mafiosi, sfrutteranno in tutti i modi la propria immagine per affermarsi come star del cinema dall’altro lato dell’Oceano Atlantico.
Immagini cartoonesche, fumetti, modellini di carta che ritraggono in scala ridotta la città di New York, citazioni noir (per esempio al capolavoro Scarface di Howard Hawks); con un montaggio quasi cinematografico, I Sacchi di Sabbia imbastiscono assieme al loro inconfondibile stile popolare evocato nelle parti cantate a mo’ di filastrocca, una drammaturgia transmediale, di e con Giovanni Guerrieri (da un’idea partorita insieme a Rodolfo Sacchettini), fiancheggiato in scena da Giulia Gallo e Giulia Solano; una gang story densa e appassionante, per adulti e bambini dagli 8 anni in su.
Dulcis in fundo, tra gli eventi di punta del festival, altra produzione dell’Associazione Teatrale Pistoiese proposta quasi ogni sera dal 13 giugno al 2 luglio, in quel piccolo luogo-bomboniera che è il Teatro Anatomico, La Signorina Else di Arthur Schnitzler tradotta da Sandro Lombardi e diretta da Federico Tiezzi. In scena c’è una potente, ineguagliabile Lucrezia Guidone affiancata dal mite e riflessivo Martino D’Amico, cui fa da sfondo la musica dal vivo di Dagmar Bathmann (pianoforte e violoncello), Omar Cecchi (percussioni), Dusan Mamula (clarinetti).
L’ingresso nello spazio scenico vede l’attraversamento di un finto prato e specchi, un’ambientazione che ci riporta al fantastico universo letterario di Lewis Carroll; come ci conferma anche la presenza, a un certo punto, di due attori con maschere enormi di coniglio, ricordo anche del film Inland Empire di David Lynch, regista del grande e piccolo schermo che dell’onirico ha fatto il suo paradigma compositivo. In modo analogo alle avventure di Alice, La Signorina Else di Tiezzi inizia – oltre che finire – con un sogno (tema caro a Schnitzler): il sogno del funerale della stessa Else, qui, anzi, cadavere che attende come in un sogno la sua autopsia.
Moralmente obbligata da sua madre a recuperare i soldi per pagare la cauzione del padre finito dietro le sbarre, un benestante con il vizio del gioco, la giovane dovrà fare affidamento sulla propria appetibile bellezza per convincere l’amico di famiglia Dorsday a cedere entro pochi giorni la somma necessaria al riscatto. Come Alice, ancora, Else è una ragazza che sta crescendo, e che di colpo sembra già consumata dal timore di dover fare i conti con le inquietudini adolescenziali, gli scontri con gli adulti, in una società, per giunta, che richiede un enorme spirito di sacrificio in nome del dio denaro. Se non c’è altro bene materiale che si possa sacrificare, non resta che il proprio corpo; che si tratti soltanto di “farsi guardare nuda per quindici minuti”, o altro, poco importa. Di corpo si tratta, e dunque la posta in gioco è quanto di più sacro e inviolabile esista per una giovane donna.
La Signorina Else interpretata da Lucrezia Guidone è una donna perfettamente consapevole dei suoi rischi, sicura e convincente nella sua difficilissima interpretazione, così vicina alla pelle dello spettatore. D’altra parte, la maschera di coccodrillo indossata all’inizio da Dorsday, una protesi che richiede distanza fisica e un modo di rapportarsi dell’altra che veda in quella presenza una possibile minaccia alla propria incolumità, è uno dei tanti segni della maestria indiscutibile di Federico Tiezzi nel riuscire a dosare elementi realistici e onirici.
La sua regia, infallibile e pulita proiezione di una spazialità a metà tra follia e geometria, ricca di quelle suggestioni visive metafisiche che pure sono ben rintracciabili nel lungo sodalizio Lombardi-Tiezzi (vengono in mente, per esempio, i Tre lai di Giovanni Testori, realizzati nel periodo in cui la compagnia si chiamava I Magazzini), lascia respirare a pieni polmoni la bellezza di un teatro che rischia spesso di restare ferito da un sistema produttivo inefficace. Un teatro di cui ogni tanto sentiamo la mancanza. E che, per fortuna, grazie alla sensibilità di realtà come l’Associazione Teatrale Pistoiese, e di chi le supporta, riesce a donarci ancora meravigliose prove di r-esistenza.