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“Pilade”: il lungo salto del mito di Oreste da Pasolini a Giorgina Pi

Silvia Maiuri

Giorgina Pi è nota nel panorama del teatro contemporaneo italiano soprattutto per aver lavorato su drammaturgie preesistenti perseguendo una vera e propria ricerca sugli autori e le autrici d’elezione e sulla messa in scena dei loro testi surrealisti e provocatori (ricordiamo particolarmente ben riuscite le regie delle opere di Caryl Churchill e Kae Tempest). Con Pilade, che ha debuttato il 16 febbraio all’Arena del Sole a Bologna, Giorgina Pi affronta un testo di Pier Paolo Pasolini e lo fa con approccio quasi filologico: di estrema fedeltà all’originale.

Non è la prima volta che la regista romana si confronta con il mito. La sua versione di Tiresias (da Kae Tempest), vincitore di tre premi Ubu,  è una poesia scenica per il corpo e la voce di Gabriele Portoghese, che qui ritroviamo nel ruolo di Oreste. Giorgina Pi trascina il mito nella realtà attuale, con molta sobrietà e senza virtuosismo, tramite scelte scenotecniche moderne. Se in Tiresias abbiamo visto un protagonista perfettamente calato nel contemporaneo (paladino dello spirito gender fluid, reietto della società e, insieme, eletto a oracolo) anche in Pilade ritroviamo degli elementi di attualità che strizzano l’occhio al pubblico affezionato a Giorgina Pi, alla sua compagnia Bluemotion e all’Angelo Mai, luogo e collettivo nel cui ventre nasce la sua ricerca artistica e si sviluppa la sua coscienza sociale. L’ambientazione è post-rave: la piazza di Argo, le sue mura e le montagne che la circondano stanno tutte in un parcheggio di cemento, svuotato all’alba da una folla di raver. L’abbandono è colmo di tracce del passaggio umano, quello pre-rave: pneumatici, la carcassa di un’auto, una roulotte con la luce accesa. La scena non subirà, per l’intera durata dell’opera, nessun cambiamento sostanziale e così Argo sia nei momenti di disperata povertà, che in quelli di ritrovato benessere, resterà ai nostri occhi immutata: sempre lo stesso grande parcheggio di cemento. Sintomatica è una staticità temporale molto vicina ai canoni del mito e apparentemente lontanissima dal concetto di modernità.

“Pilade”. Foto di Guido Mencari

Della città di Argo ci racconterà sempre il Coro, come nell’originale tragedia greca: Nico Guerzoni e Laura Pizzirani, due soli interpreti che si fanno portatori di una pluralità. In continuo dialogo con Oreste, il coro pare il suo miglior consigliere ma anche un antagonista. All’inizio dell’opera la città di Argo attende Oreste, non seppellisce i corpi di Clitennestra e Egisto che l’eroe, prima di fuggire inseguito dalle Furie, ha assassinato. E questa attesa è davvero una speranza collettiva, sembra che Argo non possa sopravvivere alla caduta dei suoi monarchi. Solo il ritorno di Oreste, l’istituzione del primo Parlamento, in nome della dea Atena, e la sua conseguente elezione a principe democratico di Argo, sembra salvare la città dell’oblio e donarle un periodo di grande rinascita. Ma sarà questo nuovo governo, la Democrazia, una evoluzione rispetto ai tempi passati, morti con i vecchi regnanti? Da qui Pasolini aveva ripreso la trama dell’Orestea e tentato di scrivere un quarto capitolo della Trilogia degli Atridi di Eschilo, cercando di decostruire l’opposizione tra passato arcaico e futuro progressista. Sulla questione il coro si dividerà, come la città, restando da una parte ciecamente ancorato a Oreste (intensa l’interpretazione di Nico Guerzoni mosso da una nevrosi fisica indicativa di una fedeltà estrema che si contrappone con ostentazione al ragionevole dubbio degli altri) e dall’altra risentito e stanco, pronto al moto rivoluzionario.

Uno degli aspetti più interessanti della tragedia e tra quelli più ostici per la regia contemporanea è l’intervento divino volto a risolvere i conflitti umani espresso nella locuzione deus ex machina. Qui a intervenire è Atena, una divinità femminile ma di discendenza maschile, una donna senza madre, nata dalla testa di Zeus, che non ha conosciuto le viscere e il trauma del parto. Una dea quindi razionale e imparziale che sa, come gli oracoli, quale sia il destino degli uomini e agisce perché si compia e la storia non subisca un arresto. Giorgina Pi ripesca Atena dai margini della società dimostrando, attraverso il suo personaggio, ottimamente interpretato da Sylvia De Fanti, che la giustizia e la ragione possono alloggiare in una roulotte (da cui esce Atena per manifestarsi a Oreste, letteralmente “ex machina”). E forse anche che la giustizia è stanca di noi, e ha sempre qualcosa di ingiusto ai nostri occhi deboli. L’associazione dicotomica tra dignità e povertà è un altro aspetto affrontato nello spettacolo e però con ingenua disattenzione quando si tratta di portare sul palcoscenico i rivoltosi. Questi sono compagni partigiani di Pilade e suoi alleati nella distruzione di Argo e delle sue contraddizioni (ché l’uomo povero e buono è semplice e non può accettare né comprendere le contraddizioni che stanno alla base del potere). La regista ha scelto di farli interpretare a un gruppo di migranti che, rimanendo sul fondo della scena per due ore, rischiano di rimanere anche sullo sfondo di quest’opera senza prendervi effettivamente parte.

“Pilade”. Foto di Guido Mencari

Pilade è l’opera che rappresenta nella letteratura pasoliniana lo sforzo e il fallimento di attraversare il presente come una fase di passaggio tra il passato e il futuro, tra il buio e la luce, tra il sopruso e l’indipendenza. Ma è un’opera pervasa di nichilismo che espone il limite di ciò racconta. Le contraddizioni di cui sopra sono tutte esplicitamente espresse nelle parole di Pilade, un personaggio cangiante. Giorgina Pi affida il ruolo a Valentino Mannias, che porta sulla scena questa metamorfosi in un atteggiamento fisico in evoluzione: passa dalla sottomissione iniziale a Oreste, di cui è amico intimo e leale, all’isteria della ribellione. Lui è un uomo moderno, cresciuto nell’agio, con una educazione aristocratica che ora è in lotta contro il capitalismo, al fianco del povero: i contadini delle montagne, gli operai delle fabbriche che hanno fatto la ricchezza di Argo, i reietti che lui fa suoi amici. Pilade è, rispetto al suo contesto, il diverso, di una “scandalosa diversità”. Il suo eroismo è infatti sintomatico di una morte sociale che non ha niente a che vedere con la vittoria e il coraggio, è qualcosa che “destabilizza il tempo lineare e che meglio comprendiamo oggi grazie al pensiero queer”, leggiamo nelle note di regia. Questa (ulteriore) eterna dicotomia lo porterà quasi alla follia e al fallimento. Il culmine del paradosso giunge quando Pilade s’innamora di Elettra perché nella lotta alla democrazia di Oreste – un governo che mantiene i privilegi dei nuovi potenti – s’invaghisce del passato, quello aristocratico a cui appartiene e che ha rinnegato, di cui Elettra è paladina. A lui solo appaiono le Eumenidi (Furie che Atena ha trasformato in dee benevolenti) ma nell’aspetto di un corpo transessuale – in scena Nicole De Leo – che tutto conosce e che con buona dose di rassegnazione nel tono infonde, più che speranza, preoccupazione per un futuro che non sembra destinato a mutare. Saranno infatti le Eumenidi e Atena a preservare per sempre lo status quo salvando la città di Argo dalla guerra civile e proponendo una pace apparente ed eterna.

Una lacuna della regia è il ritmo dello spettacolo che non varia, se non in singoli ruoli, dall’inizio alla fine. Come se il nichilismo pasoliniano ne avesse pervaso la riuscita, questo fa sì che Pilade di Giorgina Pi resti di difficile comprensione allo spettatore che non conosce Pasolini, che non opera nell’ambito della cultura, che va a teatro. E cioè quello spettatore a cui il teatro contemporaneo potrebbe tentare di rivolgersi, come Giorgina Pi ha saputo fare negli anni portando in Italia dei testi quasi sconosciuti e rendendoceli perfettamente fruibili.

[Immagine di copertina: foto di Guido Mencari]



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