Molte vicende restano fuori dai manuali di storia. Quello che accadde, ad esempio, il 25 giugno 1978 in Argentina, in pochi lo sanno: l’attenzione quel giorno era catturata completamente dalla finale dei mondiali, che vide proprio l’Argentina diventare il nuovo campione del mondo. Eppure, il Paese stava vivendo la dittatura di Jorge Rafael Videla. Per sette anni furono, infatti, torturate e fatte sparire, per mano delle autorità, circa trentamila persone. Più di cinquecento bambini furono strappati alle braccia delle madri, mogli dei desaparecidos.

Sono le voci, i gemiti, il grido di dolore di queste donne, ma soprattutto la loro fisicità, a entrare nella scrittura drammaturgica dello spettacolo diretto da Pierluigi Bevilacqua e interpretato dagli allievi dell’Accademia Teatrale di Roma Amendolea. Una storia resa nella maniera più universale, archetipica e umana, attraverso il contrasto fra tre ufficiali, la minoranza che incarna il potere, e le donne, profondamente diverse ma che insieme formano un unico corpo, rappresentando una situazione sociale forte, tesa tra la violenza di pochi e la debolezza – ma che può tramutarsi in forza – di una coralità, di un gruppo compatto di individui.

Poche parole (come si fa a esprimere il dolore di una storia occultata?), molte immagini; sostenute dal gioco espressivo e sapiente di luci e teli, usati di volta in volta in modo funzionale: per creare contrasti, unioni, e che allo stesso tempo si estendono a rammentare quella patina di oscurità che ha avvolto il destino comune di una moltitudine di persone.    

Brave le interpreti, capaci di rendere con realismo la condizione dolorosa, fisica e morale in cui versano, mentre sono accusate di aver commesso reati insignificanti e privi di fondatezza. Il coro finale è un gioioso inno alla vita, un rito di rinascita dopo il dolore.