Arti Performative

Peter Brook // The Prisoner

Andrea Zangari

Pochi ceppi di legno, un pugno di terra sparsa, un lenzuolo sdrucito e polveroso, sotto una luce uniforme e descrittiva: scenografia di un paesaggio altro, irriducibile ad ogni connotazione storica o temporale, ma non vuoto, non concettuale. E così curiosamente eloquente nella calda tappezzeria rosso Tiziano del Teatro Vittoria, dove The Prisoner di Peter Brook è andato in scena nell’ambito del Romaeuropa Festival. Uno spettacolo che si annuncia e si svolge nel segno del capolavoro: ovvero di un nitore che incide la memoria spettatrice con segni pochi e necessari, mirando a portare in scena ciò che la società vuole sospingere nell’ombra e nel rimosso: la vita della colpa e la quotidianità del colpevole. 

Ne I fili del tempo Peter Brook descrive l’ispirazione: negli anni ’40 un viaggio in Afghanistan lo portò a incontrare un uomo che viveva sua sponte innanzi a una prigione, per espiare la pena di un delitto innominabile, sotto la guida spirituale di un maestro sufi. Quella prigionia paradossale scaverà nella memoria dell’artista per decenni sino ad oggi. Drammaturgia e costruzione scenica ruotano dunque intorno al perno di quell’immagine potentemente suggestiva: un uomo seduto in proscenio osserva davanti a sé lo specchio riflesso del suo castigo interiore. La prigione è il suo orizzonte, che poi siamo noi, il pubblico.

Hiran Abeysekera in “The Prisoner”, testo e regia di Peter Brook.

Il prigioniero immaginario è Mavuso, un icastico e toccante Hiran Abeysekera. Il giovane ha colto il padre commettere incesto con la sorella Nadia, e dunque lo ha ucciso. Scontata una piccola parte di condanna tra le mura di un carcere, lo zio Ezechiele persuade la giustizia a concedergli una riscrittura della pena: similmente al maestro sufi, invita Mavuso a maturare in sé la prigionia, con l’aiuto dell’architettura vera di un carcere, da osservare giorno per giorno dall’alto di un’arida collina, lontano dalla città, sino ad un momento che egli solo potrà indicare. Così facendo, Ezechiele spiega, Mavuso sarà salvo da un regime isolante e desolante che altro non farebbe se non confermarne la rabbia, l’in nuce del raptus omicida. L’intuizione pone il tema, caro a Brook, della redenzione come esito del castigo, unico positivo punto di caduta della parabola criminosa. Tema piuttosto assente nell’attuale dibattito sullo statuto della giustizia e della sua funzione correttiva. Forse, di più, antropologicamente minoritario, ma non meno necessario. Ezechiele è in tal senso un nome fortemente suggestivo, ricorda il profeta che vaticinò la caduta di Giuda in seguito alla sua profanazione del Tempio (metafora dell’assoluta gravità cui anche l’incesto si avvicina): ma la caduta è solo un atto di passaggio verso la redenzione, nelle parole dell’Ezechiele biblico così come nell’operato di quello incarnato in maniera monumentale qui da Hervé Goffings. Nella sua interpretazione risuona l’intento di proiettare la vicenda su uno sfondo archetipico, velato di citazioni mai superflue o retoriche, di pericopi religiose e filosofiche che si incontrano nel minimo comune denominatore dell’umano, dell’essere pensante, della materia sofferente oltraggiata dall’incesto. Significativamente anche Mavuso ama la sorella carnalmente: egli stesso è, attraverso il ripercorrimento del desiderio, il Padre che ha ucciso. Doppio Edipo, Mavuso sarà chiamato dalla sorella a incarnare il ruolo di padre di una prole nata dall’incesto. Al lettore potrà sorgere il sospetto che Peter Brook e Marie-Hèlène Estienne vogliano provocare lo spettatore sventolando tabù: al contrario, l’incarnazione e l’inscenamento di ciò che è più proibito trafiggono il dolore, lo trascendono per eccesso trasfigurandone le intrinseche grida con una drammaturgia ariosa e favolistica. Di sogno sembra fatta la figura del villager interpretato da Omar Silvar che porta conforto a Mavuso, coniugando la spietatezza del suo lavoro, tagliateste nella prospiciente prigione, con il calore semplice delle sue parole. Egli svolge una funzione necessaria: è il testimone della pena, sentinella metaforica di un carcere senza mura né guardie. Leggera e divertente è Hayley Carmichael, la cui funzione è inquadrare i frammenti del dramma e riportarli ad una narrazione rivolta direttamente al pubblico che fa da alias alla voce creante di Brook-Estienne. Kalieaswari Srinivasan è la sorella, parafulmine del pellegrinaggio doloroso e generante mostri di questa coppia edipica maschile: ella ama entrambi, padre e figlio, ma non si ritira nella figura detestabile della dolente sottomessa che tutto medita in cuor suo. Interagisce col suo destino, prova a sottrarre Mavuso alla sua pena, chiedendogli di tornare e sollecitando Ezechiele ad ammorbidire la sua influenza metafisica sulla volontà del prigioniero. Emigra per condurre studi in medicina: la sua azione è il solo marcatore temporale, l’unica mozione che rompe la catena di un linguaggio mitologico-patriarcale. Senza Nadia, senza il suo corpo penetrato, il motore del crimine non incontrerebbe la vita, la redenzione resterebbe atto ultimo di un percorso introverso senza “parte seconda”. Srinivasan inscena questo ruolo, potenzialmente ipertragico restando asciutto sul piano drammaturgico ed espressivo. Il segno profondo dell’opera è una pulizia lessicale e gestuale, che rivela l’ossatura tragica ma luminosa delle parole. E di quella parola da (ri)scoprire che è la “redenzione”. 

 

THE PRISONER

Testo, Regia Peter Brook, Marie-Hélène Estienne
Luci
Philippe Vialatte
Scene David Violi
Con Hiran Abeysekera, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan, Hayley Carmichael Assistente ai costumi Alice François
Con l’aiuto di Tarell Alvin McCraney, Alexander Zeldin
Produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
Coproduzione National Theatre London, The Grotowski Institute, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Yale Repertory Theatre, Theatre For A New Audience – New York
Traduzione e adattamento sovratitoli in italiano Luca Delgado
Foto © Simon Annand



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