Pergine Festival: accessibilità e sperimentazione, un binomio possibile
Lo scorso 16 luglio si è conclusa in Trentino la 47° edizione di Pergine Festival, un appuntamento che negli ultimi anni sta acquistando sempre più peso tra le numerose vetrine estive italiane dedicate alle performing arts. Dodici giornate di programmazione nazionale e internazionale all’interno della città di Pergine (Tn) e dei suoi dintorni sono stata l’occasione per esplorare gli spazi urbani attraverso le arti performative senza dimenticare i teatri cittadini. Si è moltiplicata anche l’offerta sul piano dei linguaggi, dedicando, nel post-pandemia, una corposa sezione anche ad artisti musicali, per tornare ad animare la piazza principale, Piazza Fruet, in seconda serata, avvicinando pubblici assai diversi, di qualsiasi età. C’è infatti un’immagine in particolare che a distanza di un mese riecheggia nella memoria, e che dà la misura di quanto Pergine Festival sia sentito, avvertito, dalla cittadinanza. Sono passate le 22.00, sabato 16 luglio, e le note esplosive del bassanese Tobia Fiorese, in arte Bim Bum Balaton, fanno divertire molte persone, giovani e meno giovani. Un signore sulla settantina balla e sorride incrociando gli sguardi corrisposti delle persone intorno, come una regina della notte. Pergine Festival ha confermato la sua vocazione a essere un evento ad alta accessibilità, ne ha fatto una sorta di marchio di fabbrica. Ciò non significa affatto abbassare l’asticella della qualità e, d’altra parte, in questa incredibile compresenza di fattori, di tenere sempre alta l’asticella attraverso la sperimentazione dei linguaggi ed esser un festival per tutti, quello diretto da Carla Esperanza Tommasini fa scuola, e anzi, lo fa proprio in senso letterale, al punto che quest’anno a Pergine abbiamo avuto la possibilità di partecipare, il 15 luglio, a un Workshop sull’accessibilità culturale, a cura dell’Ass. Cult. Fedora in collaborazione con la Dott.ssa Maria Chiara Ciaccheri, formatrice, museologa ed esperta in accessibilità culturale.
Qui, presso la sala Rossi della Cassa Rurale Alta Valsugana, vi hanno preso parte appassionati, persone affette da sordità, giornalisti e operatori culturali provenienti da tutta Italia, che, insieme alle promotrici di Fedora, Ginevra Bocconcelli e Valeria La Corte, hanno seguito un intenso percorso all’interno dei problemi di chi gestisce teatri, musei e luoghi culturali. Abbiamo aperto gli occhi e provato ad attivare una nuova sensibilità, che ha portato a domandarci quanto gli spazi e i format culturali siano davvero accessibili, e che cosa significhi, di fatto, esserlo. Con esercizi di gruppo pratici, ci siamo messi nei panni di potenziali fruitori, ciascuno col proprio vissuto e la propria alfabetizzazione tecnologica. L’accessibilità non riguarda soltanto le persone con disabilità fisiche, ma in generale, rendere “accessibile” un prodotto culturale, che sia una mostra o una performance, significa rimuovere barriere fisiche e non, e per il pubblico, come avanzato giustamente da un’allieva del workshop, «far sparire quel senso di frustrazione che lo coglie» (anche sulla definizione di “accessibilità” ci si è interrogati insieme, e senza dubbio quella che riguarda il senso di frustrazione è parsa una delle più intense). Alcuni fra gli esercizi svolti potrebbero essere perfezionati, come il “gioco dello scambio”, utile a presentarsi sulla base delle comuni esperienze: era stato spiegato come un gioco in cui venivano poste delle domande ai partecipanti, i quali potevano rispondere con uno spostamento in avanti in caso di risposta “affermativa”; mentre funzionava solo nella misura in cui veniva associata una funzione simbolica (quindi rispettivamente affermativa o negativa) a ciascuna delle due sponde di movimento. Nonostante questo, la giornata di studio si è rivelata estremamente interessante e fruttuosa, e di sicuro offre un supporto per stimoli futuri (non vedremo forse mai più un museo, un teatro o un cinema con gli stessi occhi!). Seppure è vero che non costi molto superare determinate barriere, una figura come quello del “facilitatore” culturale dovrebbe essere, secondo il nostro sentire, fortemente incoraggiata, ed entrare con regolarità all’interno dello staff degli spazi culturali, almeno in quelli più istituzionali. Sempre il 15 luglio, abbiamo avuto la fortuna di partecipare anche all’Aperisegno, curato in Piazza Fruet da Fedora in collaborazione con ENS-Ente Nazionale Sordi di Trento, dove un gruppo di giovani volontari insegnava, attraverso vari esercizi e giochi, i rudimenti della lingua LIS, Lingua dei Segni Italiana, rilasciando anche un sintetico manuale.
La quarantasettesima edizione del Pergine Festival, come dichiarato dalla direttrice artistica, «È stato un momento importante anche per capire cosa abbiamo raccolto dopo due anni di pandemia, a che punto siamo, com’è cambiato il mondo – perché è innegabilmente cambiato –, come la fruizione culturale si sia modificata profondamente». Pergine Festival vince così, abbondantemente, la sfida della ripartenza, talvolta anche forse un po’ dimenticandosi che purtroppo il virus è ancora in circolo, anche se non fa più paura come prima. La performance Tea For Five: Opium Clippers, concepita dall’artista slovena Neja Tomšič e realizzata in una sala del vuoto Palazzo Gentili/Crivelli che anche quest’anno ha aperto le sue porte alla cittadinanza grazie al Pergine Festival, prevede alcuni passaggi sicuramente audaci per il periodo pandemico in cui siamo immersi. In una versione italiana appositamente tradotta e interpretata da Silvia Viviani, Tea For Five ha ricreato per pochi spettatori alla volta una vera e propria occasione conviviale, un rito intimo suggellato dalla preparazione del tè, in una composizione di azioni magnetica, incantevole proprio perché cadenzata dal suono dell’acqua che travasa da un contenitore all’altro. I servizi da tè, di Anja Slapničar, sono stati decorati minuziosamente dalla stessa Neja, per raccontare orme e ombre di una storia che ci ha portato in un certo senso alla condivisione di quel momento, ovvero alla nascita del rito del tè così vivo nella tradizione anglosassone. Storie che, nel loro piccolo, hanno portato allo sviluppo del capitalismo, con importanti conseguenze sulle politiche economiche contemporanee: il tè diventò l’”oro nero”, e insieme all’oppio, la droga preferita dagli inglesi, fu motivo di battaglie sanguinolente. Lo spettacolo mescola la parola narrante, in cui si declinano le numerose vicende accadute sulle lunghe rotte delle imbarcazioni (clippers) che nell’Ottocento attraversavano gli oceani dalla Cina con le loro merci, e i disegni meravigliosi delle tazze, che, passate di mano in mano, narrano a loro volta gli avvenimenti descritti a voce. La dolce poesia dei piccoli oggetti, che grazie alla nostra fantasia assurgono a protagonisti prendendo il centro dell’attenzione, non ha potuto far a meno di ispirare in noi il ricordo del piccolo galeone che si muoveva tra le mani di un attore nella indimenticabile Tempesta di Peter Brook. E se il passato è diventato presente, con il rivitalizzante racconto delle clippers nell’Ottocento, c’è un presente, sospeso tra versi e realtà, che appare eterno passato, proprio com’è la vita di provincia. È Tindaro Granata a parlare di quelle realtà che a un certo punto della propria esistenza si vuole abbandonare, e lo fa attingendo all’universo poetico di Franco Arminio, nel suo lavoro in anteprima nazionale dal titolo Poetica. Cinque attori – Caterina Carpio, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Emiliano Masala, Francesca Porrini – incarnano altrettante storie, sullo spiazzo di un palcoscenico in cui si stagliano le impalcature di cinque casette stilizzate, in legno, che altro non sono che stendini piegati, e dotati di mollette sui “tetti”.
Il palco ospita un paese immaginario, somma di tanti paesi, forse, in cui non accade mai niente e che le nuove generazioni, ammalate di un’insostenibile quotidianità, desiderano abbandonare. Un paese in cui «tutti vogliono stare al centro, nella piazza, e nella casa al centro della piazza», ma talmente in pochi che «le zanzare sono magrissime». Gli attori si dispongono a un certo punto seduti frontalmente, in riga, proprio come gli anziani signori inchiodati davanti a bar, nei paesini in cui la gente mormora, o durante quelle interminabili riunioni di condominio nell’androne dei palazzi. Situazioni in cui si fa la conta dei passanti, spettegolando e commentandone il presunto stile di vita vizioso o libertino. E poi c’è il Natale, sempre indimenticabile nei paesi del sud, quello stesso sud da cui Tindaro Granata proviene. Granata presenta un pranzo di famiglia in cui si ha voglia di andare via neanche il tempo di riunirsi, per stare lontano da quei riflettori abbaglianti che sono gli occhi dei parenti, dove prima o poi spunta un figlio, un nipote, che non vuole più lavorare nella falegnameria del padre e preferisce cercare fortuna in America come cantante. L’ultima immagine è limpida, sembra dirci che se “i panni sporchi si lavano in famiglia”, quelli puliti, anzi pulitissimi, vanno stesi e mostrati come uno stendardo.
Ma a Pergine Festival si esce anche all’aperto, e nei giorni del nostro passaggio sono state due le occasioni, in una sola giornata: il “primo esperimento pubblico” della compagnia DOM- di Leonardo Delogu, La buca, che parte dalla palestra di una scuola tentando alcune confusionarie divagazioni filosofiche attorno al concetto espresso dal titolo, per arrivare a una “buca” ideale che costeggia il centro cittadino, ovvero una sorta di parco abbandonato in cui le presenze umane della compagnia DOM- compongono una lunga e lenta coreografia di gesti e azioni che portano presto lo sguardo a stancarsi; e il percorso site-specific di Luca Stefenelli / Montanamente, che cura in Trentino visite guidate alla scoperta del paesaggio naturale. Luca ha realizzato un format semplice ma vincente, in cui accompagna le persone nei tragitti di montagna, soffermandosi con loro e leggendo estratti di testi per spiegare l’evoluzione storica e sociale del paesaggio. Con Luca abbiamo imparato a misurare l’età di un albero e a riconoscere i tronchi più sani e forti. Ci siamo trovati a Nogarè, a camminare facendo amicizia con gli altri membri del gruppo, per raggiungere la località di Buss, situata a 770 metri di altitudine. Qui siamo saliti in cima a una collina, dov’è situata la piccola Chiesa della Madonna della Neve, da cui abbiamo potuto contemplare l’ampia vista in cui gli elementi contemporanei, legati alla produzione economica, si fondono in un’area naturalmente fertile e dotata di numerosi laghi di piccole dimensioni. «Credo sia molto importante – afferma al termine della nostra camminata Luca, prima di regalarci un saluto speciale – cercare di andare oltre l’aspetto puramente economicistico che determina questi paesaggi per cercare di recuperare tutte le altre funzioni che vi si possono trovare: dalla funzione estetica, alla funzione ecologica, alle funzioni artistiche, proprio come sta facendo in queste ultime settimane il Pergine Festival».