Perché “Le Sacre” oggi? Sasha Waltz, il rito e la natura
Continua la programmazione in streaming di Rai 5, sempre più intensa tra un DPCM e l’altro, proseguendo la linea di una Netflix
della cultura sempre più discussa sui tavoli del Governo e tra gli operatori del settore. Più che significativa è stata, in tal senso, la decisione di trasmettere il 16 gennaio scorso Dialoge. Roma 2020 Terra Sacra, lavoro con cui la coreografa tedesca Sasha Waltz aveva aperto, appena due mesi prima, l’edizione 2020 del Romaeuropa Festival, il noto festival romano, atteso come non mai nell’anno della pandemia, delle quarantene reiterate e delle regioni a colori. Purtroppo la manifestazione ha trionfato sulla scena dal vivo solo per pochissime settimane, stroncata dal DPCM che conosciamo. Lo spettacolo è stato preceduto dal programma “Visioni” per offrire, attraverso il racconto del direttore artistico del festival Fabrizio Grifasi, una panoramica sulle esibizioni andate in scena e ha riproposto Le Sacre du printemps, pietra miliare della storia della danza europea. Sasha Waltz ha riletto l’opera cercando di muoversi sulla linea del “contatto”, tema e parola chiave del Festival di quest’anno. Una scelta che va spiegata con la concretizzazione, alla luce degli effetti della pandemia, di una rinnovata attenzione verso i temi della natura, centrale anche nel balletto in quanto entità universale e oggi declinata in un’ottica globale e integralista.
Il balletto di Stravinskij, coreografato da Vaslav Nižinskij, segnò una svolta nella storia del balletto già nel 1913 (anno della sua prima rappresentazione) perché, per la prima volta, la danza fu utilizzata per realizzare una completa compenetrazione tra la partitura musicale e quella coreografica. Soprattutto, doveva rappresentare un rito: un rito di fertilità della Russia pagana alla fine del quale veniva sacrificata una fanciulla, l’Eletta, per il risorgere della nuova stagione. A dispetto della pantomima del balletto d’azione narrativo e dell’atmosfera eterea del balletto romantico dei secoli precedenti, il primissimo Le Sacre turbò gli accademici benpensanti a causa della postura incurvata dei danzatori, dei piedi in posizione en dedans e dei loro movimenti primitivi.
Oggetto di innumerevoli rimaneggiamenti e rivisitazioni da parte di molti coreografi, la coreografia, se con Nižinskij voleva esprimere il rinnovarsi della natura, nella versione del coreografo marsigliese Maurice Béjart diveniva espressione della dualità rappresentata dall’uomo e dalla donna, e quindi, del rinnovarsi dell’Uomo (universale) attraverso la coppia di Eletti, due metà dello stesso Uno. Il rinnovo della natura non poteva che coincidere con l’amore fisico e spirituale che unisce due esseri umani. Il conflitto e la successiva fusione tra essi è l’immagine di un inno alla vita attraverso l’incontro fecondo di due essere umani. Béjart non accettava l’idea di concludere il balletto con la morte di una fanciulla e lasciò che la sua “umanità” prendesse il sopravvento sul soggetto di Stravinskij. Così privò il balletto di ogni riferimento alla Russia pagana, lo denudò mostrandone tutta la dimensione erotica e trasformò la “Danza Sacra” della morte dell’Eletta nel momento (sia pur sacro e rituale) dell’unione degli Eletti, preludio di un’apoteosi collettiva finale. Attraverso la “deformazione” della tecnica accademica Le Sacre si avvicinava sempre di più a ciò che in quel periodo veniva chiamata danza libera. I danzatori, una volta liberati da certe rigidità, risultavano estremamente “moderni”, pur mantenendo il loro classicismo.
Il filo rosso tracciato dalle varie riprese del balletto non può non passare attraverso l’impronta assolutamente matriarcale di Pina Bausch, capofila del Tanzteather tedesco e di un nuovo espressionismo insito nel gesto quotidiano. La forza corale femminile riprende il legame dell’Uomo con la terra, intesa come natura e, dunque, entità suprema. Quest’energia trapela da tutta la coreografia che si articola tra momenti d’insieme, di soli uomini o di sole donne. La terra è realmente presente dal momento che il palcoscenico viene ricoperto di terriccio e sabbia. Una scelta, quella della terra, che vuole enfatizzare la fatica dei danzatori, i cui movimenti incontrano la difficoltà di un terreno dissestato, in cui ogni passo affonda pesantemente nella sabbia lasciando profondi solchi. I danzatori arrivano a fine spettacolo sporchi ed esausti. Vi è una ripetizione ossessiva e violenta che insiste con delle frasi di movimento che ricordano l’urgenza di trovare l’Eletta. L’assolo di quest’ultima, intensissimo nella sua drammaticità, si scosta dallo schema corale e arriva puntuale a ricordare il tema del sacrificio: la vergine prescelta per essere sacrificata indossa una veste rossa e danza violentemente fino a stracciarla.
Giunti a questo punto, giunti nel 2020, l’anno flagellato dal virus dell’individualismo e della solitudine, perché ancora Le Sacre? Perché ancora Le Sacre per aprire il festival Romaeuropa?
Sasha Waltz, da sempre interessata al contatto tra i corpi questa volta propone un nuovo metodo di lavoro, facendo dialogare il singolo danzatore con lo spazio che lo circonda. Ce lo confermano gli assoli pensati in rapporto alle architetture del Festival e dedicati alla discriminazione razziale sul brano I can’t breath di Georg Friederich Hass, così come la rilettura di un altro grande classico, Bolero di Ravel. Le due coreografie fanno così rispettivamente da prologo ed epilogo a questo nuovo Le Sacre, la danza del rito, incorniciandola in una neonata visione “ecologica” del globo, laddove la parola ecologia va letta nella sua integralità. È un nuovo modo di vivere ma anche di fare arte, in cui natura e scienza sono in dialogo tanto quanto sacro e profano, spazio e architettura, musica e danza, corpo e spirito. La materia si fa natura e, al tempo stesso vi si connette in modo indissolubile. Il razzismo degli assoli iniziali è anche un pretesto per riflettere sulle più vaste discriminazioni provocate dalla pandemia sul piano sociale. In particolare, Waltz sceglie come opera principe di tutta l’installazione proprio Le Sacre per ricondurci a quel rito primaverile che dopo tanta sofferenza e morte porta ad una vita nuova, assecondando i cicli naturali, del tempo e delle stagioni. La coreografa rompe gli schemi circolari che in precedenza avevano caratterizzato il balletto e dà il via libera a diagonali, rette, geometrie piane e bidimensionali come i nostri schermi. Vi è forse un appiattimento delle forme ma ne trae beneficio il contenuto, ossia, la ragion d’essere del balletto poiché si rende fondamentale dunque il contatto tra l’Uomo e la Terra. I danzatori danzano l’irrequietezza umana fatta di sussulti, sbalzi ripetuti, movimenti nevrotici, scossoni, fremiti, per poi spalmarsi sul suolo. Vi è il recupero della tridimensionalità ma in un modo più liquido; i corpi si incastrano in linee lunghe e parallele per poi smontarsi, liquefarsi. Nonostante la ricerca del distanziamento, uomini e donne danzano in coppia cercando un contatto diverso, evitandone la frontalità. Si insiste sui canoni musicali e sulle geometrie secondo uno studio solo in apparenza formale e dettato, piuttosto, dall’esigenza di una nuova modalità di contatto. Si ha una generale propensione alla ricerca dello spazio, anche se si tende più al riempimento di una voragine sociale che a un luogo fisico. La partitura coreografica ricorda, nei momenti di maggiore ricerca e contatto con il suolo, quella bauschana; tuttavia è più leggera, meno ingombrante nell’esecuzione dei passi che, stavolta, scelgono di affondare nel suolo, di piegarsi alla gravità; non si vogliono assecondare leggi fisiche, bensì esigenze emotive, il desiderio di un ritorno alle radici. Più ci si muove e si danza “basso”, più sarà facile librarsi in volo con leggerezza. Nel suo assolo l’Eletta di Sasha Waltz si denuda volontariamente e, liberandosi della veste color porpora che la contraddistingue dal resto del gruppo, si offre con infinita passione. La sua nudità è sottolineata da una danza che potremmo definire in ouverture per i continui ecarté rivolti verso il pubblico ma anche per i suoi slanci. È un invito alla vita, alla Terra Madre, così come l’intera coreografia. Isolato dal gruppo che resta, schierato, in osservazione, l’assolo è un’esplosione di vita e di morte. Perfino a quest’ultima sembra esserci un rimedio: la rinascita.
Da questo dialogo con la natura – che dà il nome alla creazione – emerge il desiderio dell’uomo di tornare alla sua origine, alla Terra, appunto; un’esigenza scaturita dal senso di solitudine e disorientamento, già da tempo imperante e ora esasperato dal Covid-19 e dal conseguente distanziamento sociale. Non è un caso che la Waltz abbia scelto di chiudere l’opera con Bolero di Ravel che, dopo il sacrificio dell’Eletta, viene danzato in t-shirt e calzoncini sportivi: un finale dal carattere giovane, a tratti ginnico, ma che conserva il suo ritmo incalzante e la sua melodia sensuale. La deriva erotica béjartiana che ha reso celebre il balletto, qui conferma l’equivalenza tra eros, danza e vita ma, servendosi di altre geometrie, apre il dialogo a nuove prospettive di comunità e di contatto.