“Pellegrino laico” per amore del teatro: intervista a Marco Cacciola in scena a Mutaverso Teatro
L’anno nuovo ci ha abituato a portare con sé, tra le altre cose, anche la nuova stagione di Mutaverso Teatro, come sempre ideata e diretta a Salerno da Vincenzo Albano, di cui “Scene Contemporanee” è felicemente media partner e, più in generale, grande sostenitrice. Quest’anno, però, l’anno nuovo arriva prima, e più precisamente oggi 12 e domani 13 dicembre, con una graditissima anteprima di Mutaverso Teatro 2019 alla Chiesa di Sant’Apollonia, dove andrà in scena Farsi Silenzio, progetto di e con Marco Cacciola, con la collaborazione drammaturgica di Tindaro Granata e quella sonora di Marco Mantovani. In un presente che richiede velocità, movimento, corsa, lo spettacolo si fa invito a riscoprire lentezza e silenzio nella quotidianità della vita. Gli spettatori vengono dotati di cuffie in modo da cercare e attivare nuove relazioni tra lo spazio esterno/pubblico e quello interno/privato.
Due date uniche, per una prima regionale. L’occasione, quindi, è stata assolutamente propizia per scambiare due parole con Marco Cacciola, alla vigilia della sua data salernitana.
Per rompere il ghiaccio, ti chiedo innanzitutto: da cosa è nata l’esigenza di fare un percorso spirituale, come se fosse un pellegrinaggio?
Avevo l’esigenza di andare via dal teatro. Sentivo la necessità di stare lontano dai luoghi che amo, di stare in strada. Per trovare quell’esigenza doveva per me essere di nuovo una questione di vita o di morte. E allora, dato che amo camminare, ho deciso di fare un pellegrinaggio laico (parola che per me contiene tutto, anche il religioso). Mi sono incamminato, dunque a piedi, da Torino a Roma con unico compagno: un registratore e due microfoni. Sono andato in giro e ho registrato tutto (paesaggi sonori, incontri, persone); lì ho chiesto a Tindaro [Granata] se gli andasse di essere complice di quest’avventura, di questo “esperimento”, che tuttora non considero uno spettacolo nel senso canonico del termine, ma un tentativo di ricreare un altro momento d’incontro con delle persone, così come è stato questo cammino e come penso debba essere il teatro.
Questa scelta di coinvolgere Tindaro Granata, ma più in generale una persona esterna alla tua ricerca personale ed artistica, da cos’è nata?
Questo tipo di ricerca, molto personale e intima – si può dire persino mistica – correva il rischio di diventare un racconto di cose mie, e questo non mi interessava. Il racconto personale poteva togliere quell’universalità che il teatro dovrebbe avere. Avevo deciso di coinvolgere Tindaro prima ancora di partire: ho da subito creduto fosse la persona giusta per il tipo di sensibilità che ha, molto affine alla mia, e per il suo stile di scrittura, molto diversa dalla mia. Trovavo molto giusto il confronto con qualcuno da qualsiasi punto di vista, soprattutto in una ricerca sul sacro: pensando al sacro come a un dialogo – quale è lo spettacolo, in fondo – tra due persone, evitando così di andare in un’unica direzione e continuando a errare. Muovendosi continuamente, imparando anche dai propri errori.
C’è una dimensione – visto che parliamo anche di sacro – ancestrale nel tuo lavoro, in grado di parlare al pubblico proprio in questa ottica di dialogo tra persone. Su questa base “popolare” come si innestano i riferimenti colti, come John Cage, Alda Merini, Antonio Tarantino, citati nello spettacolo?
Si inseriscono in modo molto pratico: Antonio Tarantino è stato il primo incontro che ho fatto dal vivo prima di partire da Torino, e quindi è con la sua “benedizione laica” che ho iniziato questo cammino, ed è presente nel lavoro con le sue parole; ci dà a tutti uno spunto iniziale, quello che continua a farci fare le domande giuste per andare avanti. Ogni passo in questo cammino è una perdita di equilibrio, come nella vita, e quindi è un dubbio a farci andare avanti. Alda Merini è un altro riferimento – tra l’altro molto amato da Tindaro – perché ha a che fare con il fatto che, non tanto in termini religiosi, quanto in termini etimologici, sacro è sempre qualcosa di lontano da noi, anche con una sorta di sofferenza.
Dal punto di vista formale, invece, la domanda che io mi sono fatto e che continuo a farmi, riguardo anche a una certa forma di teatro – e quindi John Cage è arrivato su queste domande che mi facevo – : dev’essere tutto prestabilito? Bisogna provare a rischiare? Anche qualcosa che non conosciamo?
John Cage, da questo punto di vista, ponendosi queste domande sin dagli anni Cinquanta, ci ha sempre fatto compagnia.