Gareth Dickson – Orwell Court
Gareth Dickson – talentuoso musicista di origini scozzesi – ha fatto della voce sommessa, del fingerstyle (pizzico delicato con le dita sulle corde di una chitarra, nDr) e delle sonorità evanescenti, le sue carte vincenti. Queste caratteristiche accompagnano il suo viaggio nella musica da circa un decennio, ovvero da quando, musicista in erba, suonava nella band live di Vashti Bunyan. Il percorso solista, intrapreso nel 2009 (Collected Recordings), maturato coi successivi The Dance (2010) e Quite A Way Away (2012), si avvale della lezione dei grandi ‘maestri’, da Nick Drake, per la forte componente emozionale, ai Sigur Rós, per la riproduzione delle atmosfere fiabesche. Orwell Court è, invece, il suo quarto lavoro in studio: sette tracce di intensità gradualmente crescente, duttile per l’abilità con la quale Dickson esplora differenti, seppur sovrapponibili, generi musicali. Nel primo brano, Two halfs, dalle ineffabili sonorità, c’è un’eco spettrale della Bunyan (che si alterna quasi impercettibilmente alla voce di lui); l’elettronica minimalista permea The big lie, per poi riaffiorare nella penultima traccia del disco: The solid world, infatti, è un pezzo rigorosamente strumentale che, a dispetto del titolo, si illanguidisce in una nenia lunga oltre cinque minuti. Superba e meno melanconica è Snag with the language, in cui Dickson glissa sulle atmosfere eteree, pervenendo a uno stile più asciutto e composito. Red Road è un quadretto bucolico, in cui la maestria del fingerpicking, ossessiva nel suo divenire, fa da ‘contrappeso’ ai fiati che si odono inaspettatamente sul finale. Atmosphere – parola che incarna appieno l’essenza del disco – chiude Orwell Court; l’impressione è che i suoni evocati altro non sono che l’inizio di un nuovo viaggio: il prossimo.