NID platform 2019 a Reggio Emilia: una comunità molteplice e (ri)pensante
C’è un nesso profondo fra le comunità e i luoghi che abitano. Profondo, ma non esclusivo: comunità diverse spesso occupano lo stesso spazio, originando sistemi valoriali, estetiche e narrazioni parallele. A volte si tratta di convivenze pacifiche; più spesso sono scomode, o per lo meno propagandate come tali. Palcoscenico primario ne è, per dimensione fisica e simbolica, la città. A Reggio Emilia, come in molte altre, se ne ha sentore sin dalla porta d’ingresso ferroviaria: il piazzale della stazione, la piccola stazione delle linee regionali, è popolato da una netta maggioranza di immigrati, centrafricani soprattutto. Mentre quella sontuosa dell’Alta Velocità s’adagia gentrificata, a distanza di sicurezza, nella campagna padana.
Anche i teatri ospitano comunità eterogenee. Di nuovo, Reggio Emilia ne è la prova, con la sua piazza definita dalle facciate monumentali dei Teatro Ariosto e il Teatro Romolo Valli, col Teatro della Cavallerizza appena dietro l’angolo. C’è in città una comunità consolidata intorno alla tradizione lirica; c’è una comunità della danza che vive qui un altrettanto storico radicamento. Non a caso Reggio Emilia ospita la Fondazione Nazionale della Danza \ Aterballetto, modello di struttura regionale che sa farsi interprete e promotrice del sistema nazionale tutto; non a caso è stata scelta questa città per ospitare la quinta edizione di NID Platform, momento di condivisione e visione del lavoro delle compagnie italiane selezionate per bando pubblico. Come nelle passate edizioni, la platea si è riempita di operatori internazionali, registrando un successo di fatto a livello di visibilità e networking. Mimetizzati nella marea di artisti e operatori, c’erano anche molti critici teatrali. L’adagio echeggiava invariato: è sempre più difficile tracciare un confine disciplinare fra teatro e danza. Ed insieme a chi vantava un cursus honorum di tutto rispetto in entrambi i campi, c’è chi ha inteso la propria presenza come un accrescimento, nell’atto della visione, delle proprie competenze. Tutti, comunque, sottolineano la necessità di riconoscere alla coreutica l’abnorme capacità di cogliere e rappresentare il reale. E così, a prescindere dall’assenza di un intento curatoriale che fosse diverso dall’infilata antologica, è stato possibile cogliere proprio nel gran numero di lavori una mappa di punti fissi, un’atmosfera, una chiosa del presente. Qualcosa che ha attraversato le scene invariato, celandosi nei gesti, nelle frasi, nei segni anche minimi.
Impossibile non riscontrare una tendenza, per esempio, nelle partiture sonore: spesso grumosi ribollii elettronici o bassi profondi e larghi segnati da un crepitare nient’affatto rassicurante. Una ricorsiva presenza del perturbante che ha assunto evidenza oggettuale in Wreck di Chiasma (coreografo Pietro Marullo). Il palco è invaso da un grande corpo pneumatico che si gonfia sino a investire la platea, per poi tornare sulla scena e ritmicamente solcarla, nascondendo, assorbendo, partorendo i corpi dei sei danzatori. Una paradossale vivificazione del non-vivente che ottenebra e limita il movimento della materia vivente. Fra le ideazioni è quella che ha forse destato più perplessità, proprio per l’ingente investimento visuale e ludico su quello “space invader”. Si tratta, in ogni caso, della declinazione possibile di una poetica ampiamente condivisa. E che, per esempio, ritorna nel triplice spettacolo prodotto da Aterballetto: Lost in – “O” – La stella nascosta, estratti delle produzioni in corso alla Fondazione Nazionale della Danza. “O” di Philippe Kratz mette in risonanza due corpi alla ricerca di una vibrazione eterna poiché robotica, prendendo le mosse dalla notizia che, nel 2017, ad Hong Kong “per la prima volta due robot umanoidi hanno interagito l’un con l’altro”. “O” rimanda nel titolo alla più elementare apertura vocalica di stupore, al gesto disegnato di una bocca dischiusa, alla perfezione della circolarità: intenzioni festose, ma di una festa carica di mistero e della meraviglia terribile del post-umano. Sembra trarre respiro dallo stesso paesaggio il lavoro di Spellbound Contemporary Ballet, Full Moon (coreografia e regia Mauro Astolfi). Fra le coreografie più dense e complesse in programma, incessante ed ipnotico. “Full Moon racconta il percorso necessario per cercare di decifrare la realtà individuale. Si tratta forse di un’operazione impossibile, basti pensare, ad esempio, come le sole fasi lunari possano agire in profondità sull’uomo, sulla natura, provocando uno stato dove ci si sente smarriti, se non addirittura torturati dalla sensazione di non essere mai completamente capaci di farcela”. Il senso di incompletezza emerge con perfetta forza corale nella dialettica fra i corpi e l’ombra: a volte fredda e lunare, a volte quasi caravaggesca, in essa il movimento nasce e muore. I corpi che lottano su questa soglia sembrano l’immagine delle celebri parole di Jean-Luc Nancy: “Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena […] il corpo intraprende un dramma che […] è ogni volta la drammatizzazione singolare del suo modo di spiccare in mezzo ad altri corpi” (Corpo teatro, Cronopio, 2010).
Tutto su una soglia è anche l’etereo Metamorphosis di Virgilio Sieni, parimenti strutturato come una pulsazione che prende piede sul fondo della scena, respira spandendosi nello spazio e torna in una dimensione invisibile. Ma qui l’atmosfera è di pura luce: tre velatini candidi insistono tra il fondale e il proscenio, si fanno schermo di un’intuizione immaginifica delicatissima. L’aria prende consistenza. I performer svaniscono negli strati di luce. I corpi diventano campi d’intensità tattile che sale e scende. Il riferimento ad una dimensione trasformativa e classica torna, esplicitato di nuovo nel titolo, in De rerum natura di TIR Danza (coreografo Nicola Galli). Sei danzatori “legati da un pensiero sotterraneo” che muove anche l’autore del poema latino: “raccontare l’infinita mutazione del mondo e la ciclica rigenerazione”.
Questi ultimi due lavori illuminano la specificità del gesto puramente coreutico rispetto a qualunque forma di spettacolo che introduca la parola: il corpo può raccontare con immediata efficacia le dinamiche trasformative, senza passare dal potere della parola che indica, distingue, ordina. Parola che sarebbe costretta ad un avvitamento innaturale per giungere alla libertà del gesto puramente fisico che sa indicare i i conflitti senza risolverli. Forse per questo la danza è una pratica più adatta ai periodi di cambiamento: perché il corpo reagisce prima, e più efficacemente alla crisi. Tale auto-consapevolezza disciplinare muove verso l’assolutizzazione della tecnica coreografica, che non ha bisogno di altra drammaturgia se non quella corporea. Si produce così la riconoscibilità dello spettacolo di danza in senso stretto rispetto ai vari gradi di ibridazione teatrale.
Ma non mancano lavori che risulterebbero meno ostici per il pubblico teatrale: da Avalanche di Marco D’Agostin a A. semu tutti devoti tutti? di Roberto Zappalà, da Seeking Unicorns di Chiara Bersani a Graces di Silvia Gribaudi. I primi due che includono nel gesto, o fianco al gesto, la parola, gli altri intrisi di un senso di libertà tanto inclusivo da farsi manifesto della democrazia del corpo. Strategie, è bene sottolinearlo, ancora intrinsecamente (e raffinatamente) coreutiche, ma che finiscono per estendere la potenziale audience dello spettacolo.
De-sacralizzazione di una disciplina, o ripensamento, quindi, come indica lo slogan dell’edizione (RE)think dance, del suo ruolo civile? In tal senso è apparso illuminante il progetto GrandPrix di TIR Danza – Compagnia Simona Bertozzi/Nexus (coreografo Giuseppe Vincent Giampino), un’interrogazione esplicita rivolta proprio al rapporto fra la tradizione ballettistica e la danza post-moderna, messo in scena con un gioco coreografico sul gesto dell’iniziare. Dialogo, appunto, fra due comunità che condividono lo stesso luogo, lo stesso “pool artistico”, ma che diffondono pratiche spesso molto diverse. Quest’ultimo lavoro è andato in scena nello spazio sperimentale delle Fonderie per la sezione Open Studios, meritevole iniziativa di questa edizione di NID volta a mostrare agli operatori processi creativi ancora ampiamente in atto.
Colpisce che l’accoglienza del pubblico sia risultata puntualmente più calorosa per questi tentativi di elaborare ed includere drammaturgie extra-coreutiche, sebbene, va detto, tale pubblico sia stato per lo più formato dagli addetti ai lavori. L’interesse della città per la kermesse è infatti parso trascurabile rispetto ad un cartellone di elevata qualità e generosissima quantità. Certo è che l’incontro civile si sarebbe potuto facilitare programmando sessioni open-air. “Site-specific” e “danza urbana” sono state infatti formule spesso evocate, senza forse un adeguato riscontro scenico. Perché il luogo primario della danza è la città, dove si devono incontrare le sue comunità più o meno fortunate, come quella sul piazzale della stazione: “è proprio la danza chiamata choros che è all’origine delle città occidentali […] prima si sceglie il luogo della danza, poi i danzatori […] compiono le loro evoluzioni sullo spazio disposto come un labirinto” (Felix De Azùa, Dizionario delle arti).
NID 2019 platform in Reggio Emilia: a multiple and (re) thinking community
The communities and the places they inhabit are deeply bounded. Their connection is strong and yet not exclusive: different groups can occupy one space, originating different aesthetics and narrations. Sometimes co-living is peaceful, sometimes conflicts are rising. Most often, propaganda is spreading these conflicts to use them. The main scene of coexistence is the city. In Reggio Emilia, as in many other cities, this is visible from the very entrance, ie the train station, which is populated by immingrants, mostly from the central Africa. Meaningfully, the phenomena concern the small regional station, and not the high speed one, which lies gentrified at a safe distance, in the countryside.
A theatre can also host different communities. Once again, Reggio Emilia is a good example, with its biggest square drawn by the monumental façades of the Teatro Valli and Teatro Ariosto, few meters far from the Teatro della Cavallerizza. Here a relevant opera tradition is rooted with its community, as well as a ballet one, till the point Reggio Emilia is known as “city of dance”. It is not by chance that here the Fondazione Nazionale della Danza\Aterballeto, a prominent regional structure which works on a national scale, has its venue; it is also not chance that here the NID Platform fifth edition took place between October the 10th and the 13th, as a moment for sharing and watching the work of the best Italian contemporary dance companies selected after a public call. As for the previous editions, the audience was full of international professionals, granting a success in terms of visibility and networking.
Camouflaged among the others, a significant group of theatre critics was present too. The adage was echoing constantly: it is hard to trace a border between the two disciplines. Together with those who boasted a precious cursus honorum in the field, a certain number of critics explained their presence as a unique opportunity to enlarge their competences through the watching. However, everybody assessed the need to recognize in this art an outstanding potential to grasp and represent the state of things. In fact, regardless of the absence of a curatorial intent other than the anthological thread, it was possible to catch, precisely due to the large number of works, a map of fixed points, an atmosphere, a gloss of the present. Something that has gone through the scenes unchanged, hidden in gestures, phrases, even minimal signs.
It is, for instance, impossible not to perceive a tendency in the sound scores, often lumpy electronic boils, or deep and wide basses marked by a not so reassuring crackle. A recursive presence of the “uncanny” that took on objective evidence in Wreck by Chiasma – Pietro Marullo. The stage is invaded by a large pneumatic body which swells up to invest the audience, and then returns to the scene rhythmically furrowing it, hiding, absorbing, giving birth to the bodies of the six dancers. A paradoxical vivification of the non-living that obscures and limits the movement of living matter. Among the other works, this is the one that has perhaps aroused more perplexity, precisely because of the huge visual and playful investment on that “space invader”. And yet, Wreck is the possible declination of a widely shared poetic. Which, for example, breath into the triple show produced by Aterballetto: Lost in – “O” – The hidden star, excerpts of productions in progress at the National Dance Foundation. “O” by Philippe Kratz establishes a resonance between two bodies in search of an eternal pulse, starting from the news that, in 2017, in Hong Kong “for the first time two humanoid robots have interacted with each other “. “O” refers since the title to the most elementary vocal of amazement, to the drawn gesture of an open mouth, to the perfection of circularity: festive intentions, though of a party full of mystery and a terrible post-human wonder.
The work of Spellbound Contemporary Ballet, Full Moon, seems to catch its breath from the very same landscape. Among the densest and most complex choreographies on the program, incessant and hypnotic: “Full Moon tells the path necessary to try to decipher the individual reality. It is perhaps an impossible operation, just think, for example, how the phases of the moon can act in depth on man, on nature, provoking a state where one feels lost, if not even tortured by the feeling of never being completely capable of making it “. This sense of incompleteness emerges with perfect choral power in the dialectic between the bodies and the shadow: sometimes cold and lunar, sometimes almost Caravaggiesque, the movement arise and dies into it. The bodies that struggle on this threshold seem to give an image to the famous words by Jean-Luc Nancy: “The body is what comes, what approaches on a scene […] the body undertakes a drama that […] is every time the singular dramatization of its way of standing out among other bodies “.
On another threshold lies the ethereal Metamorphosis by Virgilio Sieni, a throbbing which takes origin at the bottom of the stage, and then grows through it, eventually to circle back and vanishing. But here the atmosphere is purely auroral: three candid veils between the backdrop and the proscenium offer a screen for a delicate imaginative intuition. The air takes on consistency. The performers vanish into layers of light. The bodies become fields of tactile intensity that rises and falls, appearing as fairy creature which we could find also in the latin homonym poems by Apuleio or Ovidio. The interest for a transformative process together with a reference to the classical literature appears also in De rerum natura by Nicola Galli – TIR Danza. Six dancers “linked by an underground thought” that also moves the author of the Latin poem: “narrating the infinite mutation of the world and the cyclical regeneration”.
These last two works illuminate the specificity of the purely coreutic gesture with respect to any form of performance using the word: the body can tell transformative dynamics with immediate effect, without passing from the systemic power of the word that indicates, distinguishes, orders. Words would be forced to unnatural entanglement to reach the freedom of a physical gesture that indicates conflicts without resolving them. Maybe for this reason dance is a more suitable practice in periods of change: because the body reacts first, and more effectively to the crisis. This disciplinary self-awareness moves towards the absolutization of the choreographic technique, which needs no other dramaturgy than the corporeal one. Thus, the recognizability of the purely dance show is given with respect to the various degrees of theatrical hybridization.
Nevertheless, NID was also the occasion to watch some works that would come easier to appreciate for a strictly theatrical audience: from Avalanche by Marco D’Agostin to A. semu tutti devoti tutti? by Roberto Zappalà, from Seeking Unicorns by Chiara Bersani to Graces by Silvia Gribaudi. The first two include the use of words in the gesture, or side by side with the gesture, the others imbued with such a sense of freedom to turn into manifest of the democracy of the body. These strategies are, it should be emphasized, still intrinsically (and refinedly) coreutic, but they extend the potential audience of the show. Is it a de-sacralization of a discipline, or a rethinking of its civil role, as the slogan (RE) think dance suggests? In this sense, the GrandPrix project of TIR Danza – Compagnia Simona Bertozzi / Nexus (choreographer Giuseppe Vincent Giampino) appeared enlightening, an explicit question addressed precisely to the relationship between the ballet tradition and post-modern dance, staged with a choreographic game about the act of starting a play. Dialogue, in fact, between two communities that share the same place, the same “artistic pool”, but that often spread very different practices. This last work was staged in the experimental space of the Fonderie, for the Open Studios section, a worthy initiative of this NID edition, aimed at showing operators creative processes which are still in place.
It is striking that the reception of the public was punctually warmer for these attempts to elaborate and include extra-choreographic dramaturgies, although, it must be said, this audience was mostly formed by the experts. In fact, the city’s interest in the event seemed to be negligible considering such a high-quality and generous billboard. What is certain is that the meeting with the city could have been facilitated by planning open-air sessions. Site-specific and urban dance were in fact often evoked formulas, yet without an adequate scenic response. As the primary place of dance is the city, with its more or less fortunate communities, such as the one on the station square: “it is precisely the dance called choros that is the origin of the western cities […] before the place of the dance is chosen, then the dancers, whose Greek name is choros […] perform their evolutions on the space arranged as a labyrinth ”(Felix De Azùa, Dictionary of the arts).
[immagine di copertina, foto di Alice Vacondio]