“Nell’occhio del labirinto – Apologia di Enzo Tortora”: intervista a Chicco Dossi e Simone Tudda
Nella notte del 17 giugno 1983, quarant’anni fa esatti, il più noto e popolare giornalista televisivo e conduttore di quel tempo, Enzo Tortora, venne arrestato dai Carabinieri con l’accusa di essere un trafficante di droga e un camorrista. È l’inizio di quello che Giorgio Bocca ha definito “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese“. Tortora, e la sua immagine di uomo pubblico, vennero completamente riabilitati dopo quattro lunghi anni. Nel mezzo, sette mesi di detenzione in carcere, una condanna in primo grado a 10 anni di reclusione, l’elezione al Parlamento Europeo, le accuse nei suoi confronti prodotte da una serie di personaggi improbabili, camorristi e piccoli criminali, alcuni dei quali definiti come affetti da psicopatia in perizie ufficiali, ma incredibilmente ritenuti affidabili dai magistrati, e una campagna stampa che descrisse Tortora, da subito (sparute eccezioni a parte), come il mostro che non era.
Una storia enorme, sul piano giudiziario, umano e persino politico, che risale a 40 anni fa. Inizia, appunto, nel giugno del 1983: di lì a poco sarebbe salito al governo Bettino Craxi, la Roma di Pruzzo e Falcao aveva appena vinto il secondo scudetto della sua storia, Vasco Rossi era uscito nei negozi con Bollicine, nei cinema davano Scarface e Flashdance, e Carmelo Bene portava in scena il suo Egmont in Piazza del Campidoglio a Roma. Insomma, un’epoca lontanissima, in cui politica, sistema mediatico, giustizia, economia, società e cultura seguivano dinamiche molto diverse da quelle che invece seguono oggi. Una storia lontana, dunque, sulla quale è lecito attendersi maggiore confidenza da parte delle generazioni più mature, che ricordano ancora il fortissimo contraccolpo mediatico generato dalla vicenda. Mentre, di contro, è facile immaginare come le generazioni più giovani, salvo un generico sentito dire, non la conoscano affatto.
Eppure, è proprio alle generazioni più recenti che appartengono Chicco Dossi e Simone Tudda, drammaturgo e regista il primo e interprete il secondo, di Nell’occhio del labirinto – Apologia di Enzo Tortora, una produzione del Teatro della Cooperativa. Un monologo alla memoria di Tortora, scritto e portato in scena proprio per non dimenticare la vicenda terribile da lui subìta. Lo scorso 18 maggio, in occasione del 35esimo anniversario della sua morte, si è svolta una lettura scenica dello spettacolo presso la Sala della Regina di Montecitorio, alla Camera dei Deputati, in una cerimonia in ricordo del giornalista organizzata dalla Presidenza della Camera e cui hanno preso parte, tra gli altri, molte autorità istituzionali.
Ma come si rapportano i giovani autori e interpreti ad una storia così complessa e lontana? Quale è il ruolo che il teatro può svolgere il relazione alla memoria, come ci si lavora e quali sensazioni si vivono? Lo abbiamo chiesto direttamente a Chicco Dossi e Simone Tudda.
Domanda per Chicco Dossi: come ci finisce uno della tua generazione ad interessarsi ad una storia così, ed interessarsene al punto da scegliere di raccontarla attraverso il teatro? In cosa è consistito il lavoro di ricerca che è poi confluito nella scrittura del testo?
Chicco Dossi: il mio incontro con Enzo Tortora è stato, in realtà, accidentale: poco lontano dall’Università Cattolica a Milano c’è Largo Enzo Tortora. La targa è il “lato B” di Corso Magenta, ben più nota via del centro, e passandoci davanti ogni giorno ho deciso di informarmi. Ho scoperto una storia incredibile, estremamente nota a chi all’epoca dei fatti c’era e totalmente sconosciuta a chi non era ancora nato. C’è stato, evidentemente, un problema di trasmissione. Il medium teatrale, a mio parere, è particolarmente fortunato a questo genere di operazioni: da quando faccio questo mestiere collaboro con il Teatro della Cooperativa, che ha fatto della Memoria Storica il cardine della sua attività. E credo che ascoltare queste storie a teatro, partecipando alla coscienza collettiva del pubblico in sala, sia un’esperienza umanamente e socialmente fortissima. Per quanto riguarda il lavoro di ricerca, ho letto tutto quello che c’era da leggere sul tema e mi sono messo in contatto con il gruppo milanese dei Radicali, l’Associazione Enzo Tortora, che mi ha fornito documenti storici e mi ha permesso di entrare in contatto con Francesca Scopelliti, compagna di Enzo, che ha deciso di far rappresentare questo spettacolo alla Camera dei Deputati, in occasione del trentacinquesimo anniversario della sua morte.
Quando si racconta un fatto di nera o di cronaca giudiziaria, sia che si tratti di un evento realmente accaduto, o di un noir di pura invenzione, è sempre molto difficile evitare di rimanere imbrigliati nella classica dinamica narrativa dei “buoni contro i cattivi”. E il caso Tortora non fa eccezione. Al tempo, l’impatto mediatico fu enorme e salvo pochissime, e isolate, eccezioni, i contemporanei sposarono le tesi dell’accusa raccontando di magistrati eroici (“i Maradona del Diritto”) impegnati ad incastrare il criminale Tortora, finalmente scoperto nei suoi loschi traffici. Oggi che la figura di Tortora è stata, giustamente, riabilitata del tutto, come viene raccontata la sua storia? C’è un ribaltamento speculare della narrazione?
C. D.: nonostante possa sembrare controintuitivo, trovo generalmente che partire da “fatti storici” sia molto pericoloso, a livello drammaturgico, sostanzialmente per due motivi. Punto primo, perché “i fatti sono quelli”: ci sentiamo protetti dalla realtà. Le cose sono andate in questo modo e quindi sicuramente saranno interessanti, pensiamo. Il primo passo che ho dovuto compiere è stato immaginare la storia di Tortora come una storia puramente di finzione. È stato fondamentale, perché mi ha permesso di sfrondare tutte quelle parti che – per quanto interessanti, per quanto vere – non servivano ai fini della narrazione.
Punto secondo, ogni narrazione ha un tema. Il teatro storico – o civile, chiamiamolo come vogliamo – non fa eccezione. La storia di Enzo Tortora non è un tema. È una storia. Ho deciso così di interpretare la sua storia personale come una ricerca di identità: accanto alla narrazione dei fatti, prosegue in parallelo l’umanissima storia di una persona che cerca faticosamente di capire chi è, e quando trova il suo posto nel mondo – davanti a una telecamera, a intrattenere milioni di italiani ogni settimana – si trova a dover ricominciare tutto da capo. È un arco narrativo quasi sotterraneo, nel monologo, ma c’è e guida la trasformazione del personaggio, e credo che anche solo inconsciamente aiuti il pubblico a empatizzare con Tortora e a vederlo più vicino a sé.
Domanda per entrambi: come si traduce una storia così enorme, piena di eventi, molto complessa sul piano giudiziario, e anche umano, in uno monologo per il teatro? Come vi siete orientati, in fase di scrittura e di messa in scena, e quali chiavi, narrative e interpretative, avete scelto per portare sul palco questa vicenda?
C. D.: rispondo intanto io sulla questione drammaturgica, essendo che il testo non è stato quasi toccato in sede di prova. Ho trovato fin da subito la forma monologante particolarmente adatta per la storia di Tortora. Il monologo lascia l’attore completamente solo con il pubblico.
Simone Tudda: durante tutto il processo creativo abbiamo sempre cercato di assecondare le richieste del testo. Una cosa che è emersa nelle prime prove è stata proprio che il testo richiedeva molteplici prese di posizione: narratore onnisciente, personaggio di Enzo Tortora, l’occhio infausto e giudicante dei media su di lui. La nostra scelta è ricaduta sulla commistione di tutti, con l’obiettivo di creare uno smarrimento, per Tortora e per il pubblico. Un incubo, dove la realtà diventa nebulosa e sfaccettata: soggettiva al punto tale da poter martoriare un innocente che non sa più come raccapezzarsi per dimostrare chi è veramente.
Un fil rouge che ci è piaciuto tendere lungo tutto il monologo è la ricerca di Enzo Tortora di rivendicare la sua identità, dapprima in quanto uomo, nell’affermarsi personaggio di successo, poi come innocente, contro le calunnie che il processo Tortora ha trasformato in grottesche prove giudiziarie, infine come emblema dei numerosissimi casi di malagiustizia italiana.
C. D.: mi piace pensare a questa messa in scena come un sistema: si è cercato di costruire una vera e propria drammaturgia di luci, per ritagliare spazi concreti e intuitivamente riconoscibili pur nel minimalismo della scena – un attore e una panca – e una partitura sonora intrecciata di echi e rimandi. Pur senza dare input visivi e uditivi realistici, l’obiettivo era rendere sempre chiare e definite le situazioni.
S. T.: anche nella costruzione dello spazio e dei movimenti ho cercato di aderire alla visione di “sistema” : ho proposto a Chicco un reticolato di movimenti, reiterato, circolare a dispetto di una narrazione cronologicamente lineare, che richiamasse la costrizione del labirinto.
Domanda per Simone Tudda: a tutti capita di leggere, ogni tanto, di qualcuno arrestato nell’ambito di una qualche operazione di polizia. A volte si tratta di un famoso ricercato, ma più spesso si parla di nomi sconosciuti al grande pubblico. Nomi di persone, potremmo dire così, normali. Leggendo di sfuggita, d’istinto pensiamo che, beh, se l’hanno arrestato qualche elemento lo avranno pure, mica si mette la gente in galera così, senza motivo. Senza pensare che è esattamente quello che si disse, e scrisse, nei giorni dell’arresto di Tortora. Senza pensare che dietro quei nomi ci sono storie, vite, e famiglie di persone che possono anche, come Tortora, essere innocenti. Ecco, un conto è leggerne, un conto è viverla. Cosa si prova a calarsi nella vicenda di Enzo Tortora, quali sono le sensazioni che si provano a interpretare sul palco, e a rivivere, in un certo senso, in “prima persona”, una vicenda terribile come la sua? Come si leggono le notizie, dopo?
S. T.: Il confronto con la domanda “cosa può avere provato un uomo in una situazione del genere” è arrivata subito, ma abbiamo preferito lavorare con l’opposizione di elementi concreti e reali piuttosto che attuare una finzione. Durante tutto lo spettacolo denuncio allo spettatore che come attore sono alla ricerca di un’adesione a Tortora, con la mia differenza d’età e di vissuto. D’altronde, il tentativo più della riuscita è per me il punto della questione: cosa si prova se si realizza che quella persona di cui si legge – distanti – le notizie sul giornale potremmo essere noi? È capitato a Tortora ma potrebbe capitare a chiunque, ai miei cari. Potrei finire in carcere nel giro di poche ore, senza una ragione e nel ribaltamento della regola “innocente fino a prova contraria” in “colpevole fino a prova contraria”. Oggi siamo anestetizzati dalla vastità di notizie che ci arrivano, facciamo fatica a ricordarci, per citare John Donne, che “la morte di ogni uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità.” Attraverso le parole del testo tento di operare un’indagine per provare a comprendere quello smarrimento, durante tutto lo spettacolo continuo a confrontarmi con il burrone, che sfugge sempre, fino all’ultimo. Non a caso, infatti, è alla fine che il testo mi impone una citazione di Enzo, richiedendomi un momento di adesione totale al personaggio, quando ritorna in televisione, nell’edizione di Portobello dell’87. Lì provo a raccogliere 60 minuti di spettacolo, di smarrimento (comunque nulla in confronto a quattro anni di calvario), penso a cosa può avere significato per lui tornare in tv, dire a tutti che l’incubo è finito, lanciare un appello alla giustizia affinché sia effettivamente giusta, per sé e per tutta l’Italia, e condensare tutto questo nella sintesi: “Dunque, dove eravamo rimasti?”.
Lo spettacolo sarà in scena a Milano il prossimo settembre per Hystrio Festival.