Arti Performative Mutaverso Teatro

Intervista a Francesco Rotelli de “Gli Omini”

Franco Cappuccio

Una delle compagnie di teatro contemporaneo più interessanti degli ultimi anni sono sicuramente Gli Omini, collettivo pistoiese nato nel 2006 con l’obiettivo di avvicinare le persone al teatro e far nascere il “teatro delle persone”. E l’audience development, per usare un termine molto sentito dai manager culturali contemporanei, è sicuramente uno dei temi più sentiti dal gruppo, che nei loro spettacoli ha sempre cercato forme d’interazione più o meno spinte, attraverso progetti di residenze/indagini in grado di ascoltare le persone intorno a loro per poi montare i dati raccolti in una sintesi che fosse anche espressione di una poetica teatrale del tutto peculiare (che gli è valsa importanti riconoscimenti come il Premio Rete Critica 2015).

La famiglia Campione, lo spettacolo che porteranno venerdì 19 Febbraio 2016 al Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito della stagione Mutaverso di Erre Teatro, che Scene Contemporanee supporta attivamente in quanto espressione dell’interessante sfaccettatura del nostro teatro innovativo, nasce proprio da un percorso di residenze, nell’ambito di un progetto chiamato Capolino. Ne abbiamo parlato con Francesco Rotelli, membro del collettivo pistoiese, iniziando la nostra discussione proprio sulla modalità dell’indagine/resistenza come humus in grado di creare uno spettacolo che potesse parlare alle persone.

Franco Cappuccio: Come mai avete sentito l’esigenza di utilizzare questa modalità di costruzione dello spettacolo?

Francesco Rotelli: E’ una modalità che abbiamo messo a punto fin dalla nostra costituzione dieci anni fa poiché ci interessava trovare un pubblico e capire le sue necessità. La Famiglia Campione nasce ad esempio nell’ambito di un lavoro svolto insieme ad una cooperativa sociale che doveva focalizzarsi sui giovani e sul rapporto tra le generazioni, per cui ci è sembrato naturale scegliere la famiglia come terreno di confronto tra le generazioni. E’ nato un progetto d’indagine, dal titolo Capolino, realizzato in alcuni paesi della Toscana, che ha portato poi alla raccolta del materiale che poi è diventato La famiglia Campione.

FC: Qual è il filtro che avete usato per montare il materiale raccolto in quello che è diventato poi lo spettacolo finale?

FR: Qualcosa avevamo già in testa quando abbiamo iniziato a pensare allo spettacolo, sapevamo che cosa inserire e come mettere in relazione le caratteristiche dei personaggi che compongono lo spettacolo, e su questo si è innestato il lavoro d’indagine, che ha confermato e ampliato queste caratteristiche.

FC: Il tema della famiglia è un tema molto frequentato nel mondo dell’arte; La famiglia Campione tuttavia, a differenza di altri lavori sul tema come Festen di Vinterberg, non utilizza la chiave del drammatico, quanto piuttosto quella dell’ironia e della risata amara. Da dove nasce questo bisogno?

FR: E’ una cosa che fa parte del nostro DNA fin dall’inizio della nostra compagnia, questa drammaturgia del sorriso rappresenta uno dei nostri modi fondamentali d’espressione nel lavoro fin qui svolto in questi anni.

FC: Nella famiglia Campione ci sono molte emozioni, ma quasi sempre negative: rabbia, odio, disprezzo, eccetera, mentre manca l’amore tra i membri della famiglia; in un certo senso, possiamo parlare dei membri famigliari come degli anaffettivi bergmaniani.

FR: Ci sono delle cose che ci avvicinano, nel processo di costruzione d’altronde abbiamo avuto modo e tempo di effettuare le giuste scelte e mostrare con chiarezza quello che è lo spettacolo; non è un caso però come ad avere un bagliore di speranza all’interno dello spettacolo non siano i giovani, ma gli anziani della famiglia, a voler rimarcare ancora una volta le differenze generazionali.

FC: C’è un personaggio in La famiglia Campione che è chiuso nel bagno da una settimana, e non compare dal vivo, costringendo gli altri protagonisti ad instaurare un dialogo con lui attraverso la porta chiusa; pur non essendo visibile, questa porta rappresenta un fulcro centrale all’interno dello spettacolo, sui cui gli altri membri della famiglia vengono calamitati.

FR: Si, con quel personaggio abbiamo voluto mostrare una persona, in questo caso la figlia, compiere una scelta radicale e, pur avendolo pensato a monte, questo atteggiamento ci è stato confermato durante il nostro lavoro d’indagine, in quanto molti ci hanno parlato di volersi chiudere da qualche parte. Questo diventa poi anche un pretesto per attivare dialoghi e creare lo sviluppo narrativo dell’opera.

FC: Passando ad una domanda che non riguarda direttamente la vostra poetica artistica ma il vostro essere artisti in un territorio, Pistoia – la città dove provenite e dove lavorate – è diventata Capitale Italiana della Cultura 2017; modelli come questo – e come Capitale Europea – si basano nell’assegnazione non sul patrimonio storico-artistico pregresso (monumenti, musei, ecc.) quanto piuttosto sulla capacità di generare cultura e utilizzarla per rigenerare il territorio, generando nuovo sviluppo, di qualunque tipo esso sia (sociale, culturale, economico, sostenibile, ecc.). E’ possibile vedere sul territorio questo cambio di passo di Pistoia? Qual è il vostro rapporto con il territorio?

FR: Negli ultimi anni il nostro rapporto con il territorio è molto buono; abbiamo fatto molti progetti e adesso ne stiamo sviluppando uno nuovo che debutterà nella sua forma completa l’anno prossimo proprio in occasione dell’anno di Capitale Italiana della Cultura. Il progetto, che si chiama “Progetto T” è un altro progetto d’indagine che indaga i luoghi toccati dalla Transappenninica, una storica ferrovia che collega Pistoia a Bologna attraverso le montagne, e proprio il risultato finale di questo percorso d’indagine sarà la realizzazione di un treno “performativo” che attraverso i suoi vagoni racconterà diversi aspetti dell’indagine che stiamo raccogliendo, stabilendo un rapporto ancora più forte tra noi e il territorio.



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