Arti Performative Mutaverso Teatro

Intervista a Laura Belli di Compagnia ZiBa

Franco Cappuccio

Laura Belli è una delle due anime fondatrici della Compagnia Ziba, gruppo teatrale fondato nel 2012 da lei e Lorenzo Torracchi in seguito alle esperienze alla scuola per attori “A. Galante Garrone” di Bologna ma soprattutto della scuola Dimitri di Lugano (il cui fondatore Dimitri Jacob Muller, storica figura del teatro di movimento, del mimo e del circo, è venuto a mancare l’anno scorso). La compagnia si è caratterizzata per una varietà di spettacoli, dal circo di strada a quelli per le scuole, fino alla nuova drammaturgia di cui l’ultimo lavoro, “E’ la pioggia che va”, che ha recentemento debuttato a Prato, è ora atteso a Salerno dove si esibirà nell’ambito della stagione Mutaverso Teatro, di cui Scene Contemporanee è media partner. Questa è stata l’occasione per scambiare due parole con la succitata Belli, cominciando proprio dal loro ultimo lavoro.

Franco Cappuccio: Il vostro ultimo lavoro, che visto un recentissimo debutto in Toscana, dove siete “stanziati” come compagnia, è frutto di un percorso di lavoro piuttosto lungo e di un confronto con le persone. Come nasce lo spettacolo?  Da dov’è nata l’esigenza?

Laura Belli: L’idea di questo spettacolo è nata nella tournèe dello spettacolo precedente della compagnia – “La tana” – in cui andavamo al fondo di una questione per noi molto spinosa perché i protagonisti di questo spettacolo si rinchiudono in loro stessi, in una “tana” appunto, in cui smettono di partecipare e di vivere una vita vera e lentamente muoiono autoannullandosi. Questo finale così nero e così cupo (che non era voluto ma che è stato frutto di improvvisazioni e del lavoro sul tema) ci ha portato a chiedere se vedere una prospettiva diversa da questo cupo nero, e quindi ci siamo chiesti da dove potevamo ripartire per costruire una visione migliore. Per cui abbiamo pensato di andare a chiedere alla gente (lo spettacolo precedente si basava su osservazioni, piuttosto che su interviste) in che cosa si riesce a credere in questi tempi, quali sono le certezze e i valori su cui ci si può aggrappare e che danno la direzione alla propria vita. Sono domande importanti, che però venivano poste sotto forma di chiacchierate molto lunghe e da queste poi è nata la riflessione che ha portato alla creazione dello spettacolo.

Possiamo dire in un certo senso che si è compiuto alla base un lavoro quasi documentaristico, per certi  versi?

All’inizio si, in termini di reperimento dei materiali, poi in realtà nello spettacolo non c’è nulla di documentaristico né c’è traccia delle interviste reali, ma queste sono servite come spunto.

Il vostro spettacolo (come anche il precedente) è molto legato alla componente del teatro di movimento, probabilmente vedendo anche i vostri percorsi artistici e formativi. Quanto quest’ultimi sono stati importanti – miscelati ad altre esperienze come il lavoro sulla Commedia dell’Arte – nello sviluppo della vostra poetica, che poi diventa vostra ed unica?

In realtà credo che la nostra poetica si stia ancora sviluppando, essendo il nostro secondo spettacolo, per cui anche noi la stiamo scoprendo piano piano. Sicuramente il fatto di prediligere questo tipo di linguaggio – o comunque di averlo più affine come base comune tra tutti noi – ci permette di costruire delle drammaturgie più d’immagine, quindi che siano più poetiche e suggestive che ad esempio documentaristiche o narrative. Lo spettacolo precedente era già più narrativo, mentre in quest’ultimo compiamo proprio un viaggio all’interno delle suggestioni, per cui ci siamo affidati completamente a questo tipo di poetica, sperimentando di più e facendo per certi versi un balzo nel vuoto.

Come vi è nata l’esigenza – voi siete nati nel 2012, ma il primo spettacolo di drammaturgia “tradizionale” (in un senso improprio) è dell’anno scorso, mentre prima avete creato lavori di teatro di strada ed esperienze affini –  di creare uno spettacolo in una forma più vicina a quella tradizionale (in una sala teatro, fronte pubblico, ecc)?

In realtà è frutto di una storia personale mia e di Lorenzo, poiché contemporaneamente a questa compagnia, che si occupava di teatro di strada appunto, eravamo all’interno di un altro gruppo di drammaturgia contemporanea in Svizzera, che era formato da 7 ex allievi della Scuola Teatro Dimitri, con cui abbiamo realizzato due spettacoli. Ad un certo punto abbiamo sentito però l’esigenza di non lavorare solo a macro progetti molto grandi, data anche l’ampiezza del collettivo, che erano molto faticosi da portare avanti, ma anche di avere qualcosa che fosse nostro e che fosse più agile, ma che proponesse però lo stesso tipo di lavoro di ricerca. Da questo abbiamo iniziato quindi a lavorare anche in questo senso con la compagnia, per cui anche se il nostro primo spettacolo di questo tipo è stato “La Tana”, in realtà è dal 2010 che lavoriamo con la drammaturgia contemporanea.

Come mai la scelta di rivolgersi ad un regista esterno per lo spettacolo?

In realtà la compagnia siamo io e Lorenzo, poi noi collaboriamo spesso come esterni. Dovendo scrivere, interpretare e anche dirigere uno spettacolo diventava troppo stressante e faticoso, per cui abbiamo scelto di condividere il percorso drammaturgico e registico – perché poi abbiamo camminato passo a passo insieme – con un’altra professionalità, anche perché avere un esterno permette anche agli interpreti di poter lavorare più duramente senza mantenere l’occhio esterno dentro di te. Per cui abbiamo scelto una persona che potesse guardarsi tutto il materiale e tutte le improvvisazioni e potesse poi restituirci un feedback su cui poi ragioniamo tutti insieme, ma che è fondamentale per permettere di tirare fuori più di quanto tu possa fare lavorando da solo. Senza contare che abbiamo comunque scelto una persona che ha condiviso il nostro percorso formativo, di poco più grande d’età, per cui in un certo senso possiamo dire che condividiamo il nostro percorso d’artista.



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