Moses Sumney @ Triennale – Milano (MI)
Alle nove di sera, nel giardino della Triennale in Milano, ci sono alcune persone adagiate sull’erba, mentre altre sorseggiano un drink seduti al gazebo del bar; tutte aspettano che Moses Sumney – il cantautore americano dalla voce suadente e cangiante come il riflesso di un prisma – si palesi sul palco di Contaminafro, il festival delle culture africane che per quest’anno – in occasione della Kermesse musicale T.R.I.P.- trova casa anche nel palazzo delle arti in via Alemagna.
Quando poco prima che il crepuscolo diventi buio Sumney fa il suo ingresso, tutti i presenti si avvicinano all’area antistante al palco; nessuno ha intenzione di perdere la benchè minima sfumatura di colore nella voce dell’artista, nemmeno le zanzare tigri che sferrano un deciso attacco ai presenti facendo ondeggiare qualcuno già prima dell’inizio del concerto. Non sono in verità tantissimi i partecipanti, lo stesso Sumney potrà con ironia sottolineare “Ok, you’re more than five…”ma di certo è un pubblico esigente e dal palato fine quello che egli si trova dinanzi (tra i presenti anche alcuni conduttori di importanti emittenti radiofonche nazionali).
Ci si impiega un attimo a restare ammaliati dal vibrato vitreo di Sumney, soprattutto quando esso raggiunge l’apice nella fusione col suono del clarinetto che lo accompagna alla sua sinistra. La voce del cantante di origini ghaniane, vissuto in California, è di sicuro lo strumento la cui performance è maggiormente attesa, e lo dimostra la presenza del microfono totem che egli ha dinanzi e che lo invita a lanciarsi nelle più audaci peripezie canore. Dal farsetto alle tonalità soul le escursioni vocali del cantante diventano la baseline su cui tutto il resto si posiziona con fare armonico e preciso; accanto a lui due musicisti si avvicendano, oltre che nel clarinetto, alla chitarra elettrica, al basso e ad un incantevole violino che contribuisce a rendere ancor più epidermica l’atmosfera intorno.
I brani eseguiti sono Lonely World, Don’t Bother Calling, Quarrel, tutti brani di Aromanticism, il suo album di debutto uscito lo scorso mese di settembre, che ha subito convinto crtitici e pubblico a mettersi al seguito del giovane Sumney, sicuramente proiettando su di lui aspettative precise per il futuro della sua incipiente carriera. Ma Moses ha lo sguardo di chi sa il fatto suo e non perde tempo a darne saggio; egli infatti dosa con maestria i suoi virtuosismi vocali ma guida anche l’esecuzione dei brani dando ad esempio l’attacco ai pezzi con un beat riprodotto battendo piccoli colpi sul microfono, oppure cadenzando la metrica con le mani ed invitando il pubblico a seguirlo con precise indicazioni.
Non manca l’esecuzione di cover di altri artisti, attese peraltro da chi segue il cantante già da un po’. E il pubblico quindi gli va dietro quando esegue Come to me di Bjork ma anche quando è finalmente la volta di Plastic, probabilmente il suo pezzo più celebre al momento. Il cantato di Moses Sumney continua ad esibirsi in una danza in cui le variazioni di tema che vanno dal soul all’afro, passando dall’immancabile farsetto che contraddistingue la sua cifra distintiva, si muovono (secondo buona parte della critica che ha provato a dargli una categoria) tra i poli Nina Simone e Thom Yorke, massimi rappresentanti di generi piuttosto lontani e almeno apparentemente indifferenti l’un l’altro. Eppure Sumney riesce a farli incontrare; egli non appartiene nè all’uno nè all’altro ma si muove con disinvoltura tra i due paradigmi musicali intrecciandone i fili e ricavandone un’impronta identitaria tutta sua.
A tutto ciò contribuisce probabilmente anche l’uso sapiente e ben dosato dell’elettronica e di strumenti come l’autotune che regala qualche distorsione o effetto particolare alla sua voce, ma la tendenza di Sumney a contaminare ed a muoversi in totale libertà artistica viene anche dal fatto di essere cresciuto in culture e società estremamente diverse tra loro come quella degli Stati Uniti, baluardo del mondo occidentale e quella del Ghana, terra di origine dei genitori di Moses e dov’egli ritorna all’età di dieci anni. Non appare quindi così strana questa curiosità verso primordiali ritmi afro e sonorità elettro-rock di cui egli non prende a prestito gli androids ma un velato mood e l’esecuzione elettro/acustica dei pezzi.
Sul finire del concerto, forte del ristretto numero di ascoltatori che ha dinanzi, Sumney lascia spazio a qualche richiesta da parte del pubblico interagendo con esso in maniera molto spontanea, quasi senza lasciar percepire il dislivello tra il palco e il sottopalco. Nel frattempo, l’atmosfera viene contaminata da noises e beats provenienti dall’alto volume del bar accanto al giardino della Triennale ma Moses riesce ad essere ironico anche su questo e si lascia andare a considerazioni quali “one world, one music” che strappano una risata tra il pubblico. Domanda dell’orario poi con un veloce calcolo di minuti annuncia i due ultimi pezzi per cui chiede anche un accompagnamento da parte del pubblico. Poco più di un’ora di concerto ma tutti si avviano all’uscita contenti, chi soddisfatto nelle sue aspettative, chi per averlo scoperto per la prima volta nel suo particolare e singolare virtuosismo artistico.