Mor Shani – Gravity and Grace
La grazia dei corpi “pesanti”, nello spettacolo di Mor Shani al Festival Inequilibrio
Gravity and Grace: due parole che insieme sembrano un’antinomia per il corpo danzante, abituati come siamo a considerare una danza “graziosa” soltanto quando i suoi movimenti riflettono un’idea di levità. Un paradosso che Mor Shani, giovanissimo coreografo israeliano trapiantato a Rotterdam – la cui presenza al Festival Inequilibrio di Castiglioncello è stata tra le più attese – è riuscito, invece, a innalzare a paradigma compositivo.
Tre corpi finemente vestiti fanno il loro ingresso sulla scena vuota e candida come un limbo, un grembo materno. Fissano il pubblico. Cercando un contatto visivo, richiamano quella complicità che sarà oggetto della performance.
Moduli coreutici semplici e reiterati: crolli pesanti sulle ginocchia visibilmente controllati fino a sfiorare la terra (da cui ha origine la vita); vere e proprie cadute di lato, sollevamenti, abbracci, sospiri. Il tutto sostenuto da una narrazione non secondaria nel veicolare le emozioni: il racconto di un dialogo tra una madre e un figlio, proiettato su uno schermo alle spalle dei danzatori in una successione di didascalie, come in un film muto. Le parole – di David Grossman – calano lo spettatore in uno scenario campestre, di cui si percepisce la lontananza, l’eco, grazie anche alle bellissime atmosfere sonore, importanti nel trasferire il dialogo su un livello più universale, archetipico e umano (un po’ come l’effetto che la colonna sonora di Alexandre Desplat produce in The Tree of Life). Il messaggio che si ricava complessivamente dalla conversazione tra i due è un’amara visione del mondo: la scoperta della solitudine. La madre dice al figlio che egli è un essere unico al mondo, e il figlio le chiede se essere unici al mondo per qualcuno non comporti l’esser soli. Lei, allora, lo rassicura facendogli sentire la sua presenza attraverso un abbraccio, fondendo il suo corpo con l’altro.
Spogliandosi dei loro vestiti ed enfatizzando quei movimenti primordiali – che si alternano ad abbracci, sospensioni, tensioni – come di chi tenta invano di reggersi in posizione fetale (sperimentando, quindi, un processo di crescita a ritroso, come chi deve disimparare a camminare), i tre performer esprimono il dolore fisico del distacco, della difficoltà di stare in piedi, al mondo, con le sole proprie forze. Placandosi soltanto nell’abbraccio, incoraggiano ad assumere il punto di vista del bambino che, come per sfuggire al pensiero grigio della solitudine, interroga la madre e si rifugia nella sua apparente ingenuità, mentre riceve l’affetto di quella figura insostituibile. L’abbraccio, la configurazione che unisce due corpi non più soli, rappresenta il culmine di un percorso astratto all’interno della performance: bisogna prima imparare a conoscere la solitudine per comprendere il senso del bisogno altrui, del sostegno reciproco. Un sostegno che la danza esprime al meglio mediante l’uso della gravità, del peso corporeo scambiato tra due masse, ma che può raggiungere anche – e questo lavoro lo dimostra – scopi più alti dei suoi mezzi. La grazia. Quella straordinaria, eterea qualità che non tutti riescono a vedere, ma che sa manifestarsi nell’arte, quando lo spirito dell’osservatore – o dello spettatore – si eleva al contatto con il sentire altrui.
Dettagli
- Titolo originale: Gravity and Grace