“Misericordia”: Emma Dante e la maternità dello spirito
Misericordia è la favola contemporanea che inneggia alla vita e alla maternità dello spirito, non a quella del corpo. Scritto e diretto da Emma Dante e andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 31 agosto al 10 settembre, lo spettacolo racconta in un unico atto il paradosso dell’amore che nasce nella miseria e nel degrado morale e materiale. La drammaturgia e la regia dell’artista palermitana non si smentiscono, e mantengono tutti i lori aspetti più peculiari. Vicende di povertà e violenza familiare, sesso mercenario e perversione, umanità al limite, storie di donne e madri, di omicidi e puttane. Il teatro di Emma Dante è l’eredità del ciclo dei vinti verghiano di fine Ottocento, che guarda alla realtà contemporanea con quella pietas di matrice classica, un sentimento di compassione nei confronti delle miserie altrui che induce a una straziante empatia.
Con Misericordia il palcoscenico si trasforma nel tugurio in cui vivono tre donne (Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi), e un ragazzo menomato, Arturo (Simone Zambelli). Durante il giorno magliaie e dopo il tramonto prostitute dai corpi ormai decadenti, le tre donne crescono il figlio di una loro amica, morta poche ore dopo il parto a causa delle botte del suo compagno, un falegname che tutti chiamavano Geppetto. Arturo cresce così in questo letamaio tra monnezza, giocattoli rotti e l’amore delle sue tre madri. Come un Pinocchio dei nostri giorni da pezzo di legno «scimunito» diventa un bambino vero, nel giorno in cui le donne decidono di mandarlo in un istituto per offrirgli un futuro migliore.
Ma in questo teatro di Emma Dante non manca neanche la fusione tra corpo e verbo, la musica simbolica che talvolta rimanda ad antiche litanie meridionali, la partitura fisica ossessiva, esagerata fino al parossismo, i corpi deformi, destrutturati ma vivi più che mai, la veracità del dialetto con incursioni anche comiche tra il siciliano e il pugliese. La drammaturgia corporea regala momenti che scuotono e commuovono al tempo stesso. In ogni stortura e bruttura in realtà c’è uno spiraglio di luce, un’empatia e una pietà tutta cristiana. Emblematica in tal senso, è la scena in cui le tre donne, come ogni sera, si mettono in vetrina per vendere il proprio corpo alla feccia, al mondo; imperfette ma bellissime, danzano volgarmente tra i rifiuti mimando atti sessuali. La danza di Arturo stringe il cuore perché ne evidenzia la sua purezza di bambino sebbene afflitto dalla disabilità. Con i suoi movimenti ossessivi volteggia in modo instancabile. Nonostante le sue stereotipie motorie danza allegramente giocando nell’immondizia tra le note di ‘Marcondirondirondello’, o ancora, al suono della dolce melodia di un carillon. Ogni sera attende alla finestra il passaggio della banda e il suo corpo si fa strumento musicale, tromba, piatto, grancassa. Il passaggio dall’infanzia alla maturità, dal legno alla vita, è segnato da un poetico assolo in cui la danza raggiunge il suo culmine attraverso l’esasperazione di gesti ludici e quotidiani, e in cui, con grande sorpresa delle sue tre madri adottive, riesce a vestirsi da solo proprio nel giorno in cui lascerà per sempre quel monovano lercio, il suo nido, la sua casa.
Misericordia è la nascita e la scoperta di un corpo nuovo in cui la maternità prescinde dal fattore biologico, dal corpo femminile. A confermarlo è Arturo, quando si rivolge alle donne per l’ultimo saluto con la più dolce parola del mondo: «Mamma!». Ma lo spettacolo mette in scena anche la violenza di genere, la miseria, la malattia, la diversità. Cerca di rendere lo spettatore più fragile e umano sbattendogli in faccia ciò che normalmente si evita di guardare, obbligandolo a soffermarsi su ciò che più rattrista e amareggia, perché la misericordia non risiede soltanto nell’utero di una madre.