Micah P. Hinson – The Holy Strangers
Micah P(aul) Hinson, il musicista che ha finora raccontato se stesso sempre ed imprescindibilmente in terza persona, presenta il suo disco The Holy Strangers. Abilissimo polistrumentista di origini texane, Hinson è influenzato musicalmente dagli artisti più disparati (da Neil Diamond ai Nirvana), pur avendo sviluppato negli anni uno stile personalissimo che rivela un talento raffinato ed eclettico. Il suo non è un passato facile, gravano sulle spalle una cocente delusione amorosa (la fidanzata elegantemente pop, modella di Vogue), il carcere, i problemi di droga. Tutto questo sembra emergere dallo schizzo scelto come copertina di The Holy Strangers: il viso ossuto incorniciato da pesanti occhiali, lo sguardo turbato, ma pieno di dignità. Le paure che quel volto ancora giovane non sa celare, sono meglio raccontate nelle sferzanti parole delle sue composizioni in cui sono evidenziati i patimenti per gli amori non corrisposti e gli scoramenti per una vita fatta di sofferenze psicofisiche: il grave incidente subito durante un tour in Spagna nel 2011 e che lo aveva costretto alla parziale immobilità per diverso tempo rimane un’ombra vivida del suo scrivere (Micah P. Hinson and The Nothing, 2014).
The Holy Strangers è una perla: l’intro, The Temptation, è un riff di chitarra distonicamente etereo, con improvvisi sprizzi di passionalità (anche lacerante), punto centrale di buona parte di questo disco. Le medesime intenzioni sono riscontrabili in Oh, Spaceman, ballata struggente e metafisica, in cui Hinson porta l’ascoltatore in luoghi lontani, forse annientati dalla guerra (si ascolta nel finale il pianto di un neonato) grazie alla capacità di alternare i violini alle chitarre acustiche, pizzicate con delicatezza. Ma non sempre quello che si vuole raccontare necessita di parole e questo disco, pur nella sua intensità, suona – molto significativamente – senza dire grazie alla presenza di diversi pezzi strumentali: la funerea The Years Tire On poggia la sua caducità (ciò che irrimediabilmente non può tornare indietro: gli anni) su un organo da chiesa e sulla violenza dei violini; in The War Hinson batte i tasti del suo pianoforte con fermezza e risentimento; un rabbioso tamburellare, invece, circonda The Memorial Day Massacre di un’aura politica e polemica (l’Occidente in guerra). Hinson, però, non è affatto monocorde: nel rispetto di una strumentazione ineccepibile e di una musicalità sempre originale, realizza degli intarsi meticolosi e puntualmente diversi l’uno dall’altro, coadiuvati (stavolta) da una timbro vocalico talora impertinente, talaltra ombroso: Lover’s Lane e The Lady From Abilene sono pezzi folk allegri e spiazzanti (per il loro apparire decontestualizzati ma, in realtà, complementari alle altre tracce), The Darling rievoca l’uggiosità di Tom Waits, The Awakening presenta sfumature di dolcezza, quasi alla Flaming Lips dei tempi che furono, The Last Song è un implicito tributo alla musica (e alla voce) di Nick Cave.
Un disco dicotomico e chiaroscurale: da un lato l’abbandono degli irreligiosi “Santi Sconosciuti” che ci lasciano in balia di noi stessi, dall’altro il grido soffocante – ma non ancora soffocato – che pretende ascolto ancora una volta, forse quella giusta.