Il meglio del cinema 2020
Il 2020 ha fisiologicamente modificato – in negativo – il canonico calendario cinematografico, condizionandone le uscite in sala, le produzioni, la commercializzazione e i festival. Quest’ultimi, o hanno deciso di rinviare la kermesse, o si sono affidati alla visione da remoto, oppure altri ancora hanno fatto di necessità – virtù, prodigandosi in un’organizzazione logisticamente complicata e qualitativamente al ribasso, rispetto alle rassegne precedenti.
La pandemia dunque, ha arricchito ed ha avvantaggiato ancor di più le cosiddette “seconde case” del cinema contemporaneo, ossia le piattaforme on demand. Seppur questo sia un processo che già in tempi non sospetti era iniziato, poiché sono anni oramai che si parla di un allontanamento del pubblico dalla “chiesa”, ossia la sala e il grande schermo, a causa di una spasmodica influenza delle piattaforme online, ossia dei supporti digitali che permettono di fruire i prodotti con estrema comodità, a prezzi vantaggiosi.
Quindi nello scrivere sui tre migliori film del 2020 – o almeno su tre opere che per vari fattori hanno caratterizzato questa inedita e assurda annata – bisogna per forza di cose inserirne uno, sia prodotto, sia disponibile su Netflix, ossia Mank di David Fincher. Aldilà di un discorso di fruizione, Mank è stato ed è – sicuramente verrà considerato il prossimo anno in sede di Oscar – un film che in tale annata fa riflettere sull’essenza storica e attuale del cinema, sull’essenza storica e attuale di chi fa il cinema – in tal caso lo sceneggiatore, o meglio l’intellettuale – e sull’essenza storica e attuale di ogni contorno nel mondo inerente alla settima arte: i processi, le relazioni, le produzioni, le invenzioni tecniche, gli aneddoti, i personaggi che lo hanno caratterizzato e che lo influenzano, ancora oggi. Mank è quella ventata onesta e senza filtri del e sul periodo classico, non solo a livello tecnico per la riproposizione del bianco e nero, delle didascalie e dei flashback alla maniera degli Anni ’40, o a livello accademico per le conoscenze e gli input che dà per una storia del cinema non conosciuta da chiunque, ma anche a livello contenutistico, perché l’opera attraverso una scrittura pungente e smaliziata, scende in profondità, per sottolineare la maledizione, la malinconia e la sofferenza ambientale, che delle figure artistiche da genio e sregolatezza sono destinate a patire.
Oltre a Mank, è impossibile non citare un’altra pellicola che in bene o in male – dato che ha diviso pubblico e critica – ha caratterizzato tale anno, poiché ha costituito una delle poche parentesi felici, nella quale il pubblico ha potuto godersi una pellicola in sala, e non poteva essere altrimenti, dato che aldilà di ogni riserva e commento soggettivo, è altresì oggettivo, che Tenet di Christopher Nolan è un’opera che va ammirata sul grande schermo. A posteriori, si è potuta comprendere per l’appunto, la lotta che Nolan ha intrapreso per far esordire Tenet – con tutti i ritardi e con ogni contrattempo contestuale – in sala, per donare una sorta di speranza al pubblico, e anche per far indirettamente trasmettere al pubblico ancora e agli studiosi, che il cinema in sala non solo non è morto, ma non deve morire nemmeno in futuro, né durante una situazione pandemica, che aggrava ancor di più quella delle strutture per il cinema.
Eppure, sarebbe riduttivo riecheggiare Tenet solo per questo, ossia in termini commerciali per il ritorno in sala dopo il lock-down primaverile, per gli incassi in pandemia, o per una lotta dell’autore con la casa di produzione, perché questa è un’opera che avvalora anche la mise en scene, la narrazione cinematografica in simbiosi con le prolessi letterarie e la potenza del montaggio, potremmo definire Tenet l’opera di Nolan più vicina se non alle tecniche ma ai dogmi dello storico formalismo russo, quindi di chi ritenne che l’elemento principale per una forma pura cinematografica fosse proprio il montaggio. È l’esaltazione di un cinema che vuole essere a tutti i costi non solo digitale ma anche analogico, un omaggio ai generi cinematografici – in primis a quelli action e di spionaggio – e del come un autore può manovrare al massimo il suo prodotto, e portarlo all’estremo potenziale estetico e narrativo.
Come terza ed ultima opera che merita di essere accomunata alle altre due, si entra nel mondo del documentario, che quest’anno attraverso i festival in digitale, si è saputo ritagliare uno spazio rilevante, all’interno della visione da casa. Il cinema del reale ha avuto un capolavoro, che è stato inserito come miglior film dell’anno anche da una scuola storica di critica, ossia I Cahiers du cinéma. Tale pellicola è City Hall, opera matura e mastodontica del maestro del cinema del reale americano, ergo Frederick Wiseman. Seppur la durata – ben 275 minuti – risulti per forza di cose ardua in un luogo “casalingo”, ove è ancor più difficile per fattori esterni mantenere un’attenzione costante soprattutto su di un doc lungo e corposo, City Hall è sia un congedo di un autore esperto dalla forma cinematografica prediletta e che l’ha reso famoso in tutto il mondo, sia una razionalizzazione/riproposizione di ogni tematica caratterizzante della sua filmografia, ed inoltre, della situazione generale negli States.
Proprio quest’ultimo aspetto, enfatizza l’importanza del film aldilà delle componenti estetiche, narrative, di regia e di decoupage (assolutamente deliziosi per esempio, l’inserimento della pittura e dei commenti dei veterani di guerra nelle sequenze, per una storiografia esaustiva della società d’oltreoceano), perché questo è stato anche l’anno della fine del trumpismo (direttamente criticato da Wiseman nell’opera e nelle interviste sull’opera) e del cambio di guardia alla Casa Bianca, con la vittoria delle elezioni di Joe Biden, che l’America liberale e socialista vede come un nuovo inizio, dopo quattro anni basati sull’isolazionismo e sul conservatorismo.
Tre opere importanti su più fronti, sia in termini di entertainment, sia in termini artistici ed estetici, sia in termini di collegamento diretto con la realtà e l’attualità, sia come riconferma e avvaloramento di tre autori con alle spalle una invidiabile carriera, i quali continuano a dare un copioso e costante contributo, al servizio dello spettacolo e dell’artisticità; la quale non deve essere soppiantata dall’aspetto commerciale, esse devono invece entrare in simbiosi e imparare a convivere (seppur post-visione di Mank per esempio, tale storica speranza, per tanti potrebbe ufficialmente scomparire). Solo così il cinema potrà superare le crisi più profonde e i periodi più sterili.