Arti Performative Focus

“Medea” secondo Luca Ronconi, riallestita da Daniele Salvo: demitizzazione e universalizzazione

Carmen Navarra

La storia di Medea, eroina tragica tra le più discusse e studiate da grecisti e non, corre su due binari, forse intersecabili, forse no: la misoginia – che è imputabile al suo stesso autore, Euripide – e l’emancipazione femminile. Nell’apparente contraddittorietà di tale affermazione, si può rilevare un dato, forse, evidente. Medea, la maga della Colchide, la barbara che si è innamorata del greco Giasone, e che in nome di quello stesso amore abbandona il padre e la sua terra natia, è una donna che aborrisce a tal punto il tradimento subìto da uccidere, con un atto estremo e al contempo lucidissimo, i suoi stessi figli pur di vendicare l’offesa e l’umiliazione e, allo stesso tempo, affermare la sua dignità di donna, vilipesa dall’egoismo del coniuge.

Questa lettura non collima del tutto con la ripresa di Daniele Salvo (andata in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano dal 13 al 29 marzo scorso) dell’allestimento che Luca Ronconi firmò nel 1996: a primo acchito si percepisce la volontà di “demitizzare” il personaggio euripideo, snaturandolo. Medea viene infatti interpretata da un uomo, Franco Branciaroli, attore dall’indiscutibile talento. L’intento potrebbe essere quello di conferire alla tragedia femminile una dimensione di universalità, che prescinde dal sesso e, senza dubbio, dal testo originario; viceversa, la tragedia greca presupponeva la presenza di attori esclusivamente maschili anche per le parti femminili (“la maschera” era infatti costitutiva del teatro ateniese). L’inapplicabilità di attualizzare un personaggio come quello di Medea parte, come sosteneva lo stesso Ronconi, dalla vicenda che è il racconto di una vendetta bruta ma razionale, folle ma lucida. 

La Nutrice (nel prologo) e il coro (durante gli stasimi) sono funzionali all’illustrazione del dramma. In particolar modo, le “amiche” di Medea, come la maga le chiama più volte, sono buffe e anacronistiche: riordinano “casa” usando l’aspirapolvere e indossano una cuffietta da cameriera. Quest’aura di contemporaneità è affidata anche ai costumi dei personaggi maschili: Giasone (Alfonso Veneroso) indossa giacca e cravatta, Creonte (Antonio Zanoletti), re di Corinto e padre dell’amante di Giasone, colui che è pronto a rivendicare la legittimità del matrimonio tra i due e ad esiliare la barbara, è seguito da un “corteo” di uomini in occhiali da sole e tuba, blues brothers sui generis di un teatro che non dimentica l’ironia anche nel tragico. Le battute stesse di Medea, di un sarcasmo non solo e non sempre amaro, riecheggiano sul palco con la complicità del tono fermo e possente di chi le pronuncia: un uomo travestito da donna, appunto. Ma al di fuori della “maschera”, Medea è un personaggio dalla triplice caratterizzazione: maga, moglie, madre. La magia è l’elemento che le permette anche di diventare moglie e madre. Innamoratasi di Giasone, la donna lo aiuta nella conquista del Vello d’Oro per poi seguirlo in Grecia, sposarlo e dargli dei figli. La magia ritorna di prepotenza anche sulla scena ma stavolta non aiuta Giasone, bensì Medea contro Giasone. Dopo che Creonte ha scelto per lei (irreversibilmente) l’esilio, Medea usa uno stratagemma per assicurarsi l’ospitalità di Egeo, re di Tebe che le aveva chiesto aiuto per guarire la sua sterilità. In un momento di eccezionale bellezza, sul palco compaiono un uomo altissimo e dal volto coperto, vestito interamente di bianco (Egeo, appunto) e Medea, in tutta la sua superbia “stregonesca”; dopo aver ingravidato Egeo con la sola forza della magia, la donna si fa giurare per Ecate, divinità “antica” e non appartenente al Pantheon tradizionale – divinità “altra” così come “altra”, barbara, era Medea stessa – l’ospitalità tanto agognata e che avrebbe ricevuto una volta compiuto il delitto. La tragedia vera e propria (esodo) si “consumerà” dietro le quinte (come la tradizione del teatro ateniese del V secolo a.C. prevedeva) mentre sul palco il Coro prima grida la propria disperazione e poi preannuncia l’accaduto a Giasone, giunto alla dimora dell’omicida. Apparentemente trionfante, Medea scende dall’alto a mo’ di dea ex machina sul carro donato dal Sole, padre del padre della barbara. Impunemente vestita di bianco, è attorniata da una cesta, nella quale sono adagiati i figli morti; e si rivolge a Giasone, che, scarmigliato e scomposto, la guarda dal basso. Le loro parole di acrimonia chiudono il dramma:

 […] G: Poveri figli miei, che madre malvagia vi è toccata!
M: Poveri figli miei, morti per la follia di vostro padre.
G: Non è stata la mia mano a ucciderli.
M: Ma la tua protervia, sì. E il tuo nuovo matrimonio.
G: E per una questione di letto hai ritenuto giusto ucciderli?
M: Ti pare un dolore da poco? […]



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