Massimo Zamboni // Anime Galleggianti
In occasione della prima dell’Andrea Chenier tenutasi al Teatro alla Scala di Milano, il poeta Guido Catalano ha curato un progetto denominato La prima diffusa che ha visto coinvolti diversi avamposti culturali della città nell’iniziativa Stand up Poetry: reading di poesie, alcuni accompagnati dalla musica, e guidati da artisti capaci di raccontare le proprie rivoluzioni poetiche. Sabato 2 dicembre nella sala degli specchi di Palazzo Litta in corso Magenta, il cantautore ex compositore e musicista dei CCCP, Massimo Zamboni, in un dialogo condotto insieme al giornalista del Corriere della Sera, Paolo Foschini, ha accolto un attento e numeroso pubblico di ascoltatori, interpretando un racconto suggestivo del viaggio intrapreso insieme a Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica) sulle rive del Tartaro Canalbianco, un canale che scorre nell’Italia nordorientale e che sfocia nell’Adriatico: “dalla pianura al mare tagliando per i campi”, come recita il sottotitolo del testo.
Anime gallegianti è invece il titolo del libro, e da subito, ascoltando le parole di Zamboni, si avverte la sensazione di trovarsi in un contesto onirico, quasi rarefattto, dettato senz’altro dalla malinconia dei luoghi descritti. Insieme a Massimo e Vasco c’è Piergiorgio Casotti, il fotografo che racconta per immagini ciò che Zamboni riesce a fare con le parole, e tra i linguaggi di entrambi vi è piena corrispondenza. I tre sono su una zattera impegnati in un viaggio che li conduce a soli pochi chilometri da casa eppure lontano dalle rispettive vite quotidiane in una dimensione di esplorazione assoluta e totalizzante. Zamboni alterna la lettura di estratti del libro, scritto a quattro mani con Brondi, al dialogo con Foschi e ad intermezzi musicali scanditi da bassi e melodie sospese che esaltano l’atmosfera del viaggio insieme alle luci soffuse della sala che lasciano l’artista al centro della scena e del racconto. Gli argini del Tartaro chiudono e trattengono all’interno del canale tutto il territorio circostante di quel pezzo di Pianura Padana dove esso scorre e tutta la sua storia, a cominciare da quella più recente fatta di immigrazione cinese e romena cui il cantautore non risparmia di dedicare un’ ampia fetta del racconto.
Il reading quindi diventa una rappresentazione in scala del territorio e della sua gente ed il Tartaro scorrendo raccoglie tanto i detriti quanto i pregiudizi intorno allo straniero e che finiscono col contaminare le sue acque. Gli incontri sono con gli aironi ed i pesci siluro, “una crociera nel posto meno turistico del mondo” per dirla con le parole dello stesso Zamboni; brevi approdi in piccoli paesi, quasi insignificanti anche per la carta dell’Italia fisica, ma che i due artisti sono capaci di raccontare con tutta la percezione vibrante di chi vede il mare per la prima volta e ne descrive anche le sfumature meno percettibili.
Il reading viene scandito dalla musica che a tratti si fa incalzante e tende i muscoli di coloro che seduti tra il pubblico ascoltano la visione del paesaggio aspettando che tutta la suspence, come le acque del canale, sfoci in un colpo di scena, ma le parole del lettore – “dove pensi che non succeda mai niente, succede sempre qualcosa”- ci riportano alla calma con cui la zattera dei musicisti naviga il Tartaro. Il Polesine che nessuno tra i suoi abitanti si aspetta quindi ma che tutti conoscono dalle immagini di altri artisti che di esso hanno raccontato come Olmi e Zavattini, per citarne alcuni.
Quello dei due musicisti è insomma un percorso insolito, un reportage emozionale ed emotivo perchè costruito attraverso uno sguardo soggettivo fatto di ricordi e sensazioni personali, dove viene abbandonata qualsiasi pretesa di sensazionalità per lasciare posto all’ordinaria lentezza di luoghi che resistono al vorace richiamo della contemporaneità. “Porto, chiusa, diramazione, foce”: con queste ultime quattro parole, ripetute più volte, Zamboni fa quadrato intorno al Tartaro ed alle sue torbide acque che, con molta probabilità, nessuno mai si sarebbe aspettato di trovare in un racconto così intimo, un’esperienza quasi infiltrata nell’anima di chi l’ha vissuta. Ed è forse proprio per tale motivo che il libro dei due poeti esploratori non poteva che intitolarsi “Anime Gallegianti”, l’immagine che ne deriva infatti è insieme di leggerezza e consistenza come la nebbia che copre le terre raccontate che molti hanno visto ma che pochi hanno conosciuto.