Marco D’Agostin & Chiara Bersani // The Olympic Games
Nell’ultimo editoriale ci siamo soffermati sull’esperienza diretta di alcune iniziative che hanno affiancato il programma di performance del Santarcangelo Festival, sottoponendo il problema della “forma” in cui possono essere veicolati contenuti e temi scomodi, e su quanto sarebbe importante che questa forma si presentasse permeabile alla sensibilità di uno spettatore disabituato ai linguaggi della scena contemporanea. Non chiameremo all’appello sirenetti e habitat che hanno scatenato maggiori discussioni, dal momento che non abbiamo avuto la possibilità di sperimentarli, e che forse – chi lo sa? – dalla nostra prospettiva avrebbero potuto anche rispecchiare quella necessità di incontrare un pubblico poco propenso alla fruizione di eventi di un festival dichiaratamente “audace”.
A Santarcangelo abbiamo avuto la possibilità di assistere a un’anteprima di The Olympic Games di Marco D’Agostin & Chiara Bersani, che poi ha debuttato in prima nazionale al Kilowatt Festival di Sansepolcro. Marco D’Agostin lo avevamo visto durante la scorsa edizione di Short Theatre a Roma, con il suo Everything is OK, in cui si manifestava il suo interesse ad approcciare la danza come “scrittura”, discorso che investe il corpo, e così altrove ne scrivevamo: «corpo prima di tutto come scrittura, discorso acefalo e afallico. Senza senso, si direbbe, e invece no, al senso si cede sempre, fuori da quello stesso corpo, s-confinando nell’interpretazione, del linguaggio e dello sguardo»; Chiara Bersani, performer diversamente abile affetta da una forma media di osteogenesi imperfetta, sembra porsi sulla stessa lunghezza d’onda di D’Agostin, stando alle note del suo Goodnight, peeping Tom pure presente nel programma di questa edizione del festival: «chi lo incontra [il corpo] non può esimersi dall’attribuirgli un significato, interpretarlo, creare attorno a lui delle aspettative […]».
The Olympic Games, primo lavoro che firmano insieme è, per i due artisti, una metafora che tenta di esprimere l’euforia e il fallimento di qualcosa che si è a lungo ricercato. Lo hanno fatto seguendo le intenzioni comuni che sottendono le rispettive poetiche: costruendo, sviando, smontando e ricostruendo sensi, aspettative, e tenendo in mente temperature, ritmo, potenzialità della scena. Da qui l’esortazione di un D’Agostin-vocalist-imbonitore «Let’s imagine everything is possible tonight».
Nel formato playlist che sta avendo molta fortuna in questi anni, la drammaturgia intreccia così parola, oggetti e tracce musicali. Al centro, però, resta sempre il corpo: bello, atletico, “perfetto” ai nostri giorni; quello diversamente abile, ma anche l’altro emotivamente insicuro e limitato dalla propria ansia da prestazione. Limiti che richiamano sfide. Sfide verso se stessi, soprattutto, mentre appaiono un po’ forzati e vaghi i riferimenti al sentimento nutrito dalla nostra generazione verso quell’incerto territorio di incontri, sfide e vacillamenti che è l’Europa, un sentimento che proprio per la sua difficoltà di definizione forse giustifica quella stessa incapacità espressa, nel «non riuscire a trovare le parole».
La resistenza è uno dei temi centrali della performance. Non si tratta solo di una resistenza fisica dell’attore o di una resistenza legata all’iperattività; c’è in gioco anche una resistenza diversa, connessa all’inazione e alla sfera emotiva dello spettatore. Movimento e propriocezione sono infatti implicati ogni volta che poniamo i nostri occhi sul mondo, indifferentemente se reale o finto («Come potremmo dirvi che nulla di tutto ciò è reale?», viene detto): per mezzo dei cosiddetti neuroni-specchio, la vista è il senso che lega l’uomo alle sue sensazioni fisiche fino a stimolare delle reazioni, una risposta empatica che a teatro, però, non può essere consumata nell’azione, perché la quarta parte tra lo spettatore e la scena impone il rispetto di una separazione tra i due mondi. Matteo Ramponi, a un certo punto esce dalla sala, se ne va a correre per il paese, o almeno così lo immaginiamo fare, vedendolo uscire correndo, in tenuta sportiva. E difatti ritorna in sala bagnato fradicio di sudore, ma tra il guardare e il fare c’è di mezzo il teatro, la possibilità della finzione: se il sudore fosse soltanto acqua gettata sul suo corpo e la sua fatica una recita?
Chiara Bersani, invece, la vediamo coi nostri occhi alternare un piede davanti all’altro su un tapis roulant al centro della scena e accennare un sorriso al pubblico, speranzosa, mentre cammina sul posto. Ha il volto che si surriscalda, prende il colore dei suoi sforzi, ma lo spettatore resta fermo, immobile osservatore nel rispetto delle sue “convenzioni”, e quasi prova un senso di colpa per il fatto di posare i suoi occhi inerti di spettatore teatrale sulla fatica, che qui crede senza dubbio reale, di una persona diversamente abile. Ma perché, credere, crederci, non sono forse atti politici? Le domande, così come le risposte, poi, paiono capovolgersi: chi sono i veri “resistenti”, loro, gli atleti del palcoscenico, o noi spettatori, che restiamo alcuni minuti a osservare una performer, Marta Ciappina, bloccata al suo livello pre-espressivo, congelata nel suo mostrarsi “assenza in presenza”? E se è “assente”, allora, noi spettatori che cosa stiamo guardando?
I segni non sono simboli, elementi funzionali alla trasmissione di un messaggio. La scena è il messaggio, la nebulosa che contiene una serie infinita e possibile di significati, in cui può dispiegarsi anche l’esercizio di una drammaturgia basata sul principio del caos, del nonsense. «The cloud is going to explode», declama Marco D’Agostin. Alla fine dello spettacolo, l’esplosione, di una sorta di stravagante “macchinina” celibe di duchampiana memoria, ci sarà per davvero, e ciò che resterà dopo quel little bang sarà presenza a sé stante, come un “Grande Vetro”.
Marco D’Agostin e Chiara Bersani, pur in una forma drammaturgica non proprio limpidissima (ricordiamo però che si trattava di un’anteprima), si fanno portavoce di una sorta di rebus politico da sottoporre allo spettatore con ironia e leggerezza, in cui la scena, evocativa di un immaginario occidentale per lo più conosciuto (le Olimpiadi, la discoteca, lo sport), è la punta di un iceberg di domande dalla quale gli occhi provano a osservare un angosciante futuro.
THE OLYMPIC GAMES
con Chiara Bersani, Marta Ciappina, Marco D’Agostin, Matteo Ramponi e un gruppo di giovani danzatori della città
musica originale Pablo Esbert Lilienfeld
inno della cerimonia di chiusura Hani Jazzar
co-creazione cerimonia di chiusura Luca Poncetta
progettazione cerchi olimpici Paola Villani
mentoring Igor Dobričić
direzione tecnica Paolo Tizianel
logistica e assistente di scena Eleonora Cavallo
co-produzione VAN, K3 Tanzplan Hamburg, all’interno del progetto Together Apart, finanziato da German Federal Cultural Foundation
co-prodotto nell’ambito del progetto europeo Be SpectACTive! sostenuto da CapoTrave/Kilowatt, Tanec Praha, Teatrul National Radu Stanca Sibiu, Bakelit Multi Art Center Budapest, Domino Zagreb, York Theatre Royal, Lift London
residenze creative Centrale Fies, Corsia Off, Ateliersi