Arti Performative Musica

“maqam”, luoghi e non luoghi di musica e danza

Roberta Leo

«maqam è un “concerto coreografia” che esplora la relazione compositiva tra ambiente sonoro e coreografico». È questa la dicitura che compare sul libretto di sala del Teatro Cavallerizza de I Teatri di Reggio Emilia quando il 17 ottobre è andata in scena l’ultima creazione di Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch. Un sommario esplicativo della parola da cui l’opera prende il nome, appunto, maqam. Quest’ultima, parola araba, rappresenta molte cose: luogo, posizione,  stazione, scala, quindi tutto ciò che indica uno spazio, un luogo fisico. Ma con maqam si intende anche quel particolare sistema di costruzione e organizzazione melodica della musica araba tradizionale, una tecnica d’improvvisazione largamente praticata in tutto il Medio Oriente. In quest’ultima accezione la semantica del termine viene capovolta, riferendosi a qualcosa di più poetico e astratto. In altre parole, meno fisico.

La performance si relaziona secondo schemi precisissimi con lo spazio e la musica attraverso brevi tentativi di intersezioni, tanto che è la musica, il più delle volte, a predominare sulla danza. Impreziosisce, infatti, questa coreografia-performance, il canto e la tromba di Amir ElSaffar, jazzista contemporaneo di punta ed esperto della tradizione musicale irachena del maqam.

Sette danzatori, cinque uomini e due donne, ognuno con un ruolo e una storia da danzare, sono gli interpreti presenti in scena. Lo spettacolo inizia con un’ouverture da concerto vero e proprio, presentando gli orchestrali collocati sul palco su cui danzeranno i danzatori. Visto globalmente, il lavoro si mostra come un’operazione tecnica, una prova di dialogo tra musica e danza. La coppia di lavoro De Stefano-Bianchi Hoesch, uno con la sua coreografia, l’altro con la sua musica dal vivo orchestrata, crea un connubio indissolubile. Questo concerto moderno sembra l’evoluzione di ciò che diceva il neoclassico Balanchine, «Bisogna poter vedere la musica e ascoltare la danza». Altro connubio vincente è quello che lega i ritmi jazzati e le antiche melodie irachene. I corpi dei danzatori sono avvolti da una nebbia blu. Danzano sfilando lateralmente mentre sul fondale suonano in riga i musicisti dell’orchestra rigorosamente equidistanti tra loro come se fossero anch’essi punti fermi della coreografia. Ognuno con il suo strumento partecipa con il corpo ai movimenti dei danzatori. Tra questi spiccano le due donne, diversissime tra loro: una sinuosa e raffinata nelle movenze, l’altra più densa e corposa. La loro danza si mostra al pubblico filtrata dalle luci bassissime e dai fumi che ne disegnano solo le silhouette. Gli assoli dei sette interpreti sono brevissimi, come le frasi coreografiche d’insieme. La coreografia è una bozza, sicuramente fluida ma priva di un filo logico, una prova spazio-musicale e teatrale.

Tutto ricorda un po’ la genesi di uno spartito, i numerosi tentativi di combinazione tra le note prima di raggiungere un risultato compiuto in cui le due arti madri sono a servizio l’una dell’altra.



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