“Mappe. Sguardi sui confini” a Milano: l’onere e l’onore dell’arte, della fotografia, di conciliare le culture
Dal 13 al 16 giugno 2018 a Milano Palazzo Litta Cultura ha promosso un ambizioso ed eclettico progetto avente come tematica il viaggio. Da qui la scelta del titolo: Mappe. Sguardi sui confini.
Il programma che ha previsto esibizioni musicali dal vivo, spettacoli teatrali e rassegne cinematografiche ha trovato tra il 20 giugno e il 15 luglio 2018 un’ulteriore canale di fruizione, la Triennale di Milano, che ne ha “ereditato” l’aspetto relativo alle arti visive. Nella fattispecie Mappe. Sguardi sui confini è diventata una mostra fotografica che ha messo in luce, attraverso lo sguardo di alcuni artisti provenienti da paesi diversi (Ucraina, Iran, Turchia, USA/Messico), le criticità dei confini. Le cosiddette “barriere geografiche”, infatti, di cui i diversi artisti sono testimoni diretti, hanno creato e creano tuttora discrepanze sociali e culturali che l’arte ha l’onere e l’onore di conciliare.
L’apertura della mostra in Triennale è affidata ad Andreco, artista romano e ricercatore in ingegneria ambientale che – attraverso l’installazione One and Only– “ragiona” visivamente sul significato di paesaggio inteso come confine geografico e politico da abbattere. Andreco, recatosi sulla vetta di Pal Piccolo, montagna divisa dal confine tra Italia e Austria e campo di trincee durante il primo conflitto mondiale, ha installato delle bandiere raffiguranti vette di montagne nere a riprova del fatto che la montagna sia, appunto, unica ed indivisibile e non esistono frontiere che possano determinarne la sua spaccatura.
Il viaggio – non potrebbe esserci parola più efficace per descrivere questa mostra – tocca i territori citati: lo sguardo di Manu Brabo, Martin Kolláre Anna Zvyagintsevasi posa sull’Ucraina e testimonia la guerra di confine (detta anche guerra del Donbass) tra i nazionalisti ucraini e i ribelli separatisti filorussi ed antigovernativi del Donbass (le regioni ucraine di Donetsk e Lugansk), cominciata nel 2014 e tuttora in corso. Nello specifico Kollár, col suo lavoro Provisional Arrangements, esprime le brutture della guerra attraverso la rappresentazione di spazi architettonici vuoti e scarni, come le prigioni in cui sono spesso reclusi gli attivisti sociali.
L’artista turco Servet Koçyiğit documenta la drammatica condizione di apolidia e atopicità a cui sono costretti milioni di immigrati africani che si recano “in cerca d’oro” a Johannesburg, città mineraria per antonomasia: la compresenza di culture divergenti sfocia molto spesso in conflitti territoriali e di confine. Nel lavoro My heart is not made of stone, il fotografo immortala uomini che, con sguardo inflessibile, reggono tra le mani una mappa sulla quale sono localizzati, sotto forma di gemme e di pietre preziose, i siti minerari più ambiti del continente; le immagini testimoniano la volontà di ricreare una “geografia delle pietre” che tuttavia non danneggi il cuore (che, appunto, non è di pietra).
Ci si sposta in Iran dove due artiste documentano fenomeni drammaticamente attuali, la morte di migliaia di migranti annegati in mare (Simin Keramati) e la condizione femminile in una società prettamente maschile (Shadi Ghadirian). Keramati, artista originaria di Teheran, dà vita al progetto The space in between all the physical objects, installazione audiovisiva che, attraverso il lungo monologo di una vittima del mare, rimarca le tragiche conseguenze dell’ancora imbattuto confine tra il Sud e l’Est del Mediterraneo. Ghadirian denuncia, attraverso la fotografia, la condizione di insubordinazione della donna che si scontra giornalmente con la censura e il fanatismo religioso. Nella raccolta di fotografie in bianco e nero, intitolata Miss Butterfly, Ghadirian ritrae una serie di donne confinate tra le ragnatele di una stanza che provano (invano?) a divincolarsi.
Ultime ma non meno importanti sono le testimonianze fotografiche dei messicani Daniel Monroy Cuevas e Alejandro Cartagena che espongono rispettivamente i progetti New Frontier, un viaggio tra i drive-in abbandonati nella frontiera tra Messico e USA e The Car Poolers, che diviene strumento di riflessione sui problemi di crescita eccessiva in Messico. I “carpoolers” che vivono in sobborghi costruiti in terre lontane senza un adeguato trasporto pubblico verso i centri urbani, sono costretti a viaggiare in condizioni igienico-sanitarie precarie sul retro dei pickup sudamericani per raggiungere il luogo di lavoro.
Attraverso le esperienze della guerra, dell’immigrazione, delle precarie condizioni di lavoro e di genere, l’arte visiva ci insegna, ancora una volta, ad intraprendere un viaggio per superare quei confini che l’uomo si ostina ancora a tracciare.