L’uomo senza il reo. Il Teatro dei Venti porta una trilogia shakespeariana nel Carcere di Modena
Mettere piede in un carcere, per coloro ai quali non è mai capitata l’occasione di entrarvi, è sempre un’esperienza che lascia il segno. E se questo segno fosse anche un nuovo incontro, come quello con la tragedia di Shakespeare e la storia di Roma, un incontro tra teatro e parola, tra corpo e pensiero, tra uomini del passato e uomini di oggi? È quello che è accaduto il 3 e 4 febbraio presso la Casa Circondariale di Modena dove è andato in scena Giulio Cesare, il primo capitolo della trilogia di Shakespeare prodotta dalla compagnia Teatro dei Venti.
Non è, infatti, un caso che, per il biennio 2022-2023, all’interno dei progetti teatrali prodotti dal Teatro dei Venti nella Casa Circondariale di Modena e nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, si sia scelto di mettere in scena la trilogia shakespeariana (a Giulio Cesare seguiranno Amleto e Macbeth). In essa i detenuti si confrontano con le opere del drammaturgo inglese e i processi creativi della compagnia teatrale modenese rileggendo i celebri testi senza spogliarli della loro antica essenza ma donando loro contemporaneità attraverso una dizione meravigliosamente imprecisa, un accento straniero, una fisicità che esplode gradualmente.
Il Teatro dei Venti da circa un decennio ‘presidia la fortezza’, ossia, presenziano nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena e costituiscono, ormai, un vero e proprio ‘presidio culturale’.
«Cerchiamo sempre di lasciar fuori il ‘reo’ e di lavorare sull’uomo. Non si parla quasi mai durante i laboratori dei reati commessi dai detenuti-attori. Per loro quello è un momento in cui sono lì come uomini, sono semplicemente sé stessi» afferma Stefano Tè, regista e direttore artistico della compagnia quando parla del suo lavoro svolto con i detenuti. La trilogia di Shakespeare e, in particolare il suo primo capitolo Giulio Cesare, diventa così un pretesto per parlare di uomini realmente esistiti che nel bene o nel male hanno segnato la storia; il lavoro teatrale e drammaturgico permette a questi uomini privati della libertà fisica di incontrarne altri (citando ancora la bellezza dell’incontro), ossia, andare in-contro ad un uomo-archetipo messo a nudo ma anche privo di qualsiasi giudizio sulle proprie azioni. Sotto questa lente il teatro non appare forse come una declinazione della funzione rieducativa della pena (per citare Cesare Beccaria)? E i temi universali che hanno reso Shakespeare immortale non sono forse attuali e funzionali per un progetto che include il teatro in carcere? Sebbene gli attori del Carcere di Modena abbiano dato prova di grande studio e bravura (e non manca nemmeno un approccio al professionismo degno di nota), ciò che in loro colpisce maggiormente è il lavoro svolto sul testo (grazie alla drammaturgia di Massimo Don e Stefano Tè) e il modo in cui trasmigrano quest’ultimo sui tratti psicologici dei loro personaggi. Così uomini potenti come Cesare, Bruto, Marco Antonio, Ottaviano si spogliano della loro veste sociale e si mostrano semplicemente con le loro fragilità e debolezze, seminando un terreno fertile per riflessioni sull’uomo e la natura umana, sul tradimento, la ricerca del potere, la vendetta, la paura. La Roma imperiale svela tutte le sue crepe nascoste dal fascino e dalla ricchezza di un’epoca che sembra invincibile ma che invece è destinata a crollare. Ne è un esempio la complessa partitura fisica in cui un ‘coro danzato’ completamente al maschile, sul finire dello spettacolo, combatte schierato nella lunga e stretta pedana open space su cui si svolge l’intera azione. Il teatro diventa, così, uno strumento per dare un respiro, per pensare, educare con dignità. Corpi, voci e suoni (musica dal vivo di Irida Gjergji) senza limiti di tempo e spazio sono gli elementi di un unico spettacolo che riecheggiano nei corridoi del Carcere di Modena, un luogo-non luogo che cela una comunità invisibile, una compagine sociale scandita da regole, orari, attività, e ora d’aria.
[Immagine di copertina: foto di Chiara Ferrin]