Con l’Odin Teatret Film al confine tra cinema e teatro: intervista alla film-maker e studiosa Chiara Crupi
La vita cronica è solo una tappa della tua storia personale con l’Odin Teatret: dal 2010 ne dirigi la Web tv. Cosa ti ha portata fino a Holstebro? Ti va di raccontarci come hai conosciuto il Maestro Barba?
Ho incontrato Barba prima sui libri all’università, e poi seguendolo durante le sue incursioni a Roma. In particolare, nel 2000 ho avuto modo di collaborare con la compagnia insieme a un gruppo di studenti e studiosi. L’entusiasmo era forte. È stato impossibile restare indifferenti alla loro umanità, oltre che al grande rigore etico e professionale. Eravamo tutti contagiati e cercavamo di dare una mano in tutti i modi possibili: dal pulire la sala a vendere i libri, a proporre al pubblico pomeridiano filmati storici. In cambio avevamo la possibilità di vedere gli spettacoli più e più volte. Il mio rapporto diretto con Eugenio Barba e gli attori dell’Odin Teatret è nato lì.
La tua formazione e la tua carriera raccontano un lavoro borderline, al confine fra campi disciplinari che hanno tanto divergenze strutturali, quanto sovrapposizioni circostanziali o genetiche. Cosa pensi di questi confini disciplinari?
Lavorare sul confine non è mai comodo, e spesso è difficile il dialogo con gli specialisti dei diversi settori. Nel mio caso in particolare, si tratta di una situazione davvero paradossale: filmare uno spettacolo generalmente è un’operazione che non funziona. I linguaggi del video e del teatro appartengono a mondi incompatibili che, per la loro differente natura, non dialogano facilmente. Il film ci dà l’illusione di cogliere qualcosa di oggettivo, di analizzabile, ma in realtà si allontana dall’oggetto che vorrebbe mostrare e da quello che noi vorremmo vedere. Diciamo che una performance non dovrebbe essere filmata, ma ci concediamo di farlo per questioni di utilità, appellandoci al fatto che “qualcosa” è meglio di niente; accanto a questo assunto esiste il fatto inconfutabile che il documento audiovisivo di spettacolo è diventato ormai uno strumento molto comune sia per gli studiosi sia per gli artisti. Da questo paradosso nasce la mia riflessione – che credo sia legittima – perché non riflettere su come filmare teatro, dal momento che è una pratica comune.
Da dove nascono le tue passioni? Biograficamente è venuto prima il teatro o il film making?
Indubbiamente il teatro. Il mio primo “corso di recitazione” l’ho frequentato a tredici anni. Una passione che ho attraversato ricoprendo diversi ruoli e in molti modi diversi. Negli anni dell’incontro con l’Odin, ad esempio, dirigevo un gruppo di professionisti e amatori con il quale organizzo laboratori, spettacoli, eventi e progetti di diversa natura. Abbiamo lavorato molti anni insieme. Ma c’è anche l’interesse per i film a essersi innestato presto. Il dottorato in “Tecnologie digitali per lo spettacolo”, svolto alla Sapienza, mi ha permesso di unire queste due prospettive espressive.
Nei tuoi lavori la dimensione antropologica ritorna costante: perché? Cosa ci permette di vedere lo sguardo sulle variabili dell’umano? All’inverso, in che modo la tua ricerca vuole e può estendere il campo antropologico?
Non penso di poter o voler estendere o cambiare il campo antropologico, ma la mia telecamera osserva e rielabora spesso il corpo del performer e per me filmare il lavoro di un artigiano, ad esempio, spesso si rivela qualcosa di molto simile all’attività del corpo in vita di un artista, attore, danzatore, ecc. Diciamo che il mio paesaggio preferito è l’essere umano, la sua natura “ritmica”, l’arte del suo fare, la voce che si racconta…
Veniamo a La vita cronica. Com’è stato lavorare al montaggio con Eugenio Barba? Come si è articolato il processo creativo? Hai seguito le prove e in quel contesto hai generato un approccio alle successive riprese?
Ho seguito moltissime prove, sia come osservatore sia con la telecamera in mano. Ho assorbito il più possibile dallo spettacolo in qualità di spettatore; poi mi sono confrontata con altri spettatori, gli studiosi di teatro che sono vicini all’Odin Teatret da sempre, e anche spettatori occasionali, persone che non conoscevano bene la compagnia. Volevo cercare di capire cosa solitamente colpisse nella fruizione dello spettacolo. Soltanto dopo ho cominciato a fare un progetto di lavoro. La prima grande decisione è stata quella di filmare gli spettacoli dal vivo. The Chronic Life è stato girato in più di venti repliche dello stesso spettacolo, in diversi anni e in diversi luoghi dell’Italia e della Danimarca. Di solito si filmava con almeno due camere: la mia e quella di Claudio Coloberti film-maker dell’Odin Teatret e responsabile degli archivi audiovisivi dal 2000. Come regista del progetto, io ho diretto le fasi di ripresa della performance. Ho poi eseguito personalmente il montaggio del film, e in molte fasi del lavoro, in collaborazione con Eugenio Barba.
Si può dire che la tua visione svolga in qualche modo il lavoro del pubblico, di scegliere quale personaggio o dinamica seguire, e come: sei d’accordo? Alla luce di questo, quale relazione pensi ci sia tra il film, frutto di una selezione e di un perfezionamento, e la fruizione personale de La vita cronica a teatro? Pensi si possa parlare di un valore documentale? O prevale l’aspetto del prodotto “altro”, una fattispecie artistica autonoma?
Il lavoro è nato con l’intento primario di fornire una documentazione dello spettacolo, ma quando con Barba abbiamo iniziato a lavorare al montaggio del film, mi sono presto resa conto che Eugenio stava cercando di non documentare uno spettacolo, ma di “ricrearlo”. E qui il mio ruolo è cambiato, e anche il film. Quindi è anche un prodotto “altro”. Contiene molte scelte selettive rispetto allo spettacolo, anche se non ne tradisce assolutamente la struttura. Io credo che sia un documento particolare, dove il punto di vista dello spettatore audiovisivo dialoga – e non coincide – con il punto di vista del regista dello spettacolo, attraverso una sintesi mediata da me, che ho avuto un ruolo abbastanza “scomodo”, se vogliamo. Ci sono stati momenti in cui la collisione fra i linguaggi sembrava non avere esiti positivi. A me piace definirlo un tentativo di traduzione, che con l’intervento di Eugenio è diventato un tentativo di traduzione poetica.
La multimedialità, con particolare ricorso alla tecnologia e ai nuovi media, è ormai una presenza ricorrente nel corpo di molti spettacoli. Lavori anche su questo piano, ovvero all’innesto del video-making nel teatro?
Sono innumerevoli i modi in cui l’audiovisivo e la performance dal vivo dialogano. Il discorso è complesso e non facile da schematizzare. Comunque, per risponderti, sì, ho un progetto in questo senso, però al di fuori del mio lavoro con l’Odin Teatret. Sarà interessante vedere come e dove mi porterà l’esperimento, se si concretizzerà. Perché penso che l’esperienza quando, in un certo senso, è colma, debba trasformarsi e misurarsi con nuovi contesti.
Dove e come pensi si possano incontrare un teatro di liturgia come quello di Eugenio Barba, in cui si percepisce una sacralità senza tempo, e le pratiche multimediali innovative di cui ti occupi? C’è reciproca fecondazione?
Per me il teatro di Eugenio non è un teatro di liturgia. Preferisco, però, lasciare le definizioni ai critici teatrali. Io ho un approccio molto concreto al lavoro dell’Odin. Per quello che invece mi chiedi sulla reciproca fecondazione fra i due mondi, l’Odin Teatret paradossalmente filma i suoi spettacoli, le sue dimostrazioni di lavoro, il suo training, dagli anni Settanta grazie a Torgeir Wethal, l’attore dell’Odin che ha fondato e diretto l’Odin Teatret Film. È un paradosso che non nasce con me. E la storia ci dice che l’incontro è stato fecondo. Ci sono alcuni film, quelli didattici o sui baratti, che sono dei “cult” nel loro genere e sono visti da attori e teatranti di tutto il mondo.
La tua professione si svolge tra Italia e Danimarca. La storia stessa dell’Odin Teatret è un possibile cammino di incontri fra la cultura mediterranea e quella scandinava, che del resto non dialogano poi molto sia pure in un’Europa presuntamente unita. Come si vive fra questi due territori vicini e lontani? Il tuo campo di lavoro e di ricerca è parimenti valorizzato nei due paesi? Cosa dovremmo apprendere, e che cosa avremmo noi italiani da insegnare all’estero?
L’esperienza con l’Odin Teatret è stata straordinaria, ma non so se posso davvero considerarlo un lavoro svolto in terra danese: geograficamente lo è, ma l’Odin ha una sua natura, molto speciale, è un crocevia di culture e tradizioni diverse e ospita artisti da ogni parte del mondo. È come abitare una nave che approda in molti porti. Quanto all’Italia, decisamente è stata una terra più avara con me. Eppure, molti dei miei progetti futuri sono pensati per essere realizzati qui. Continuo a desiderare di abitarla di più. E ne sento, più che il dovere, il diritto.
[Immagine di copertina: Chiara Crupi e Iben Nagel Rassmussen dell’Odin Teatret. Foto di Francesco Galli]