L'”Infanzia Felice” di Antonella Questa. Una conversazione a Castiglioncello con l’autrice e attrice
Il 14 settembre all’Auditorium Comunale di Chiuduno (BG), per il festival teatrale Terre del Vescovado, andrà in scena Infanzia Felice di e con Antonella Questa. Lo spettacolo, prodotto da LaQ- Prod in collaborazione con Pupi&Fresedde Teatro di Rifredi e con Festival InEquilibrio – Armunia, è il risultato di un lungo studio, fatto dalla stessa autrice sul volume Pedagogia Nera di Katharina Rutschky, pubblicato a Berlino nel 1977, che consiste in una raccolta di saggi e manuali sull’educazione dei bambini partendo dalla fine del XVII secolo fino ai primi anni del secolo scorso; a questo, si aggiungono altri studi e approfondimenti che si basano su alcuni testi attuali che riguardano l’educazione infantile e i fatti di cronaca recente.
Infanzia Felice ha debuttato alla XXI edizione del festival di teatro e danza Inequilibrio di Castiglioncello (LI) il 7 luglio: proprio in questa occasione, abbiamo incontrato Antonella Questa che, spontanea e genuina, ci ha svelato alcuni processi del suo lavoro di autrice-attrice.
Da poco hai pubblicato il libro Questa sono io che raccoglie le esperienze della tua carriera teatrale, una carriera molto lunga. Quale è stato il motivo che ti ha spinto a prendere il teatro come strada della tua vita?
In realtà il libro Questa sono io raccoglie solo due mie drammaturgie: Vecchia sarai tu! e Svergognata, spettacoli ai quali sono molto legata per i temi che toccano: la vecchiaia e l’ossessiva ricerca dell’approvazione altrui. Il volume – pubblicato da Caracò Editore – è diventato anche l’occasione per far conoscere il mio lavoro attraverso la formula della presentazione/reading, in cui alterno la lettura di brani a momenti di approfondimento col pubblico sulle problematiche affrontate. Per quel che riguarda la mia lunga carriera teatrale, tutto è cominciato a tredici anni: ho avuto una folgorazione! Un professore delle medie aveva creato un gruppo di teatro, nessuno di noi ragazzi aveva mai avuto esperienze dirette né ravvicinate con il teatro, a parte andarci regolarmente, ma l’entusiasmo per l’iniziativa è durato fino alla maturità! Personalmente mi sono innamorata subito di questo nuovo modo di raccontare storie. Preparavamo anche spettacoli di teatro/danza e credo proprio sia stato in quegli anni, che ho sviluppato un interesse particolare all’uso del corpo in scena, oggi fondamentale in tutti i miei lavori. Dopo il diploma, i miei genitori mi hanno incoraggiato a continuare, lasciandomi partire per Firenze – sono nata e cresciuta a Torino – dove in attesa dei provini per la Bottega di Gassman mi sono iscritta al Laboratorio Nove di Barbara Nativi, lì mi sono diplomata e lì, professionalmente, tutto è cominciato. L’aiuto dei miei genitori però aveva un prezzo: dovevo fare anche l’università. Ecco perchè tra uno spettacolo e l’altro mi sono laureata in farmacia, ma per vostra fortuna, non ho mai esercitato!
Tu hai un rapporto da factotum con il teatro: traduci, scrivi testi e reciti. Degli ultimi spettacoli, Un sacchetto d’amore e Infanzia Felice, hai curato anche la regia. Iniziamo dalla scrittura dei testi: raccontano storie di vita quotidiana, evocano personaggi che suonano sempre familiari, che cosa ti porta a raccontare storie?
Raccontare storie credo sia qualcosa che mi porto dentro, fin da quando ero bambina. Ad esempio, ultimamente, stavo lavorando su Infanzia Felice e mia madre mi ha mostrato un quaderno di quando avevo 5 o 6 anni. Mi sono stupita nel trovarci delle vere e proprie scenette di vita quotidiana, ne avevo disegnata una per pagina, in sequenza, così quando fai scorrere veloci le pagine, ti sembrano un film. Penso che il teatro – in tutte le sue forme – racconti sempre una storia che ci riguarda da vicino, che riguarda i nostri sentimenti, le nostre difficoltà, le nostre vittorie. E questo mi piace raccontare, ecco perchè osservo il quotidiano e studio il meccanismo di relazione tra noi stessi e gli altri. I temi dei miei spettacoli poi sono sempre complessi, spesso sono tabù, quindi creare personaggi familiari mi permette di renderli accessibili a tutti, mostrando anche la complessità che abita ognuno di noi.
Spesso scegli stereotipi, personaggi incastrati in automatismi comportamentali, luoghi comuni, pregiudizi. Il tuo personaggio soffre, ma poi impara una lezione, come la maestra Caramella di Infanzia Felice. Al di là del messaggio che si può condividere o meno, tu impari mai dai tuoi personaggi?
Sì, penso di sì, forse mi insegnano a non dimenticare che c’è sempre una via d’uscita, che non siamo mai soli, che c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarci, ad ascoltarci. Basta esser in grado noi di ascoltare e di guardare gli altri. Pensandoci è quello che faccio quando scrivo: osservo molto la gente che incontro, soprattutto sconosciuti incrociati per strada, al bar, in autogrill, in treno. Persone che osservo al punto da mettermi a volte ad origliare i loro discorsi. Mi piace ascoltare i loro punti di vista sul mondo, le loro tribolazioni, guardarne i corpi, come si muovono, come parlano, cosa dicono di pensare. Lo faccio anche quando intervisto le persone che nella vita reale vivono situazioni vicine alla storia di un personaggio che ho inventato. E’ un modo per renderlo più vero e per testare, capire, se quel che ho intuito, la direzione che ho preso sia giusta. E poi lo dico sempre: l’umanità mi appassiona. Sono convinta che ognuno di noi abbia grandi potenzialità, a volte abbiamo solo bisogno di qualcuno o qualcosa che ci aiuti a tirarle fuori. Come succede alla Maestra Caramella di Infanzia Felice. Sono convinta che possiamo farcela, ecco perchè alla fine dei miei spettacoli c’è l’happy end, un finale felice ma mai leggero, anzi, sofferto, spesso liberatorio e incoraggiante.
Spesso usi il corpo per descrivere le scene, i movimenti sono molto veloci, ritmici e simbolici. Come sei arrivata a un uso così coreografico del corpo?
L’uso del corpo è un’altra forma di scrittura, è trasmettere col corpo, quello che la parola non può fare altrimenti risulterebbe didascalica. Ho sentito il forte desiderio di usare diversamente il corpo in scena, quando ho inziato a scrivere Vecchia sarai tu! Il personaggio della nuora ossessionata dall’invecchiamento e quello della nipote che fa la gelataia per mantenersi, ad esempio, sentivo avevano bisogno di “agire” le loro emozioni piuttosto che raccontarcele, descrivercele. Così ho iniziato a scrivere poche frasi su un paio di situazioni, poi con Magali Bouze, la mia coreografa, nonché amica storica, siamo andate a improvvisare e costruire le coreografie. I personaggi sono nati “fisicamente” e questo mi ha agevolato nella scrittura del testo. Oggi invece mi accorgo che la mia scrittura, fin dalle prime righe, contiene già un ritmo, nelle frasi e nella linea drammaturgica della storia attraverso una precisa sequenza delle scene. Anche il lavoro con Magali si è evoluto; siamo arrivate negli anni a creare coreografie, come in Un sacchetto d’amore ad esempio, in cui il gesto non è sempre legato al senso della parola. In Un sacchetto d’amore tratto il tema delle dipendenze comportamentali non da sostanze, tra cui lo shopping compulsivo. I medici intervistati mi spiegavano che chi ne è affetto non lo vede come un problema, non vede l’assurdità di comprare e accumulare cose spesso uguali tra loro. Per la coreografia delle innumerevoli borse comprate dalla protagonista volevo quindi sottolinerare proprio quest’aspetto surreale, così Magali ha sovrapposto alla descrizione delle shopping bag, una serie di gesti ispirati a quelli delle hostess di bordo. Usare il corpo in scena, farlo muovere in tutt’altra direzione rispetto a quel che dice la protagonista, non ha solo un effetto comico, ma mi permette di raccontare il personaggio tridimensionalmente, trasmettendo la sua angoscia di voler colmare con le borse un vuoto che avrebbe invece bisogno di ben altro.
Anche dal punto di vista visivo quei gesti stanno molto bene sul palco, a livello estetico. Mi chiedevo come progettate tu e Magali B una coreografia così “ritmica”?
Solitamente io e Magali iniziamo mesi, a volte addirittura uno o due anni prima del debutto a parlare dell’idea che vorrei raccontare. Parlo prorpio di idea e non di storia, perchè spessissimo la storia arriva molto tardi, attraverso i personaggi. Io e Magali ci conosciamo bene da 20 anni e benché lei sia francese e non parli una sola parola di italiano, capisce sempre perfettamente quel che vorrei mettere in scena e le discussioni con lei sono sempre molto stimolanti. Il lavoro pratico del creare coreografie e movimenti di scena invece cambia ad ogni spettacolo. A volte le ho portato qualche battuta scritta e siamo partite da lì, altre volte abbiamo prima improvvisato e poi sono andata a scrivere, altre ancora le mostro delle idee di coreografia e lei le sviluppa, oppure è lei a propormi gesti e movimenti che mi fanno cambiare il testo. Non ci sono regole. E’ una vera e propria sinergia. Essendo poi io bilingue, quando proviamo, dico le battute in francese, poi Magali, una volta capito il senso del testo, lavora sul ritmo dato dall’italiano. Per Infanzia Felice ho sentito prima il bisogno di scrivere tutto il testo e poi di crearne i movimenti. Alla fine abbiamo creato una coreografia continua, ovvero, a parte alcuni momenti dichiaratamente diciamo “danzati”, per tutto lo spettacolo i movimenti sono coreografati, non c’è un solo gesto che io faccia che non sia stato fissato insieme.
In Infanzia felice sei riuscita a portare in scena dei temi di attualità: il bullismo infantile, l’aggressività dei genitori verso i sistemi educativi e la violenza psicologica verso i propri figli. Per far questo sei partita dai problemi educativi del passato, che riguardano la maggior parte delle persone adulte da vicino. Qui si nota molto il lavoro sulle emozioni dei personaggi e sul modo di comunicarle al pubblico.
Il tema, dici bene, è assolutamente attuale! Purtroppo si tende a parlare di bullismo, di maleducazione dei bambini, dell’inettitudine dei genitori e degli insegnanti, ma il vero problema, la vera questione di cui dovremmo iniziare a parlare, il tabù da infrangere è il maltrattamento infantile. Non intendo solo quello fisico, ma anche quello sempre più diffuso, di natura psicologica. Tra tutti i libri letti, il saggio di Katharina Rutschky, Pedagogia Nera, con l’ottima introduzione di Paolo Perticari, professore di pedagogia all’Università di Bergamo, mi ha aperto gli occhi sulle radici di una violenza che da secoli viene perpetrata ai danni dei bambini. Bambini che poi diventano adulti. Noi. Ecco perché al titolo dello spettacolo ho aggiunto “una fiaba per adulti”, perché è proprio da noi adulti che dobbiamo ripartire, se vogliamo aiutare i bambini di oggi a crescere con una serenità che a noi troppo spesso è stata negata.