Le Fils de l’épiciére, le Maire, le Village et le Monde
Il “cinema del reale” è stata ed è una forma d’arte in simbiosi con i piccoli centri, non solo per un’estensione tout court della cultura – lì dove è difficile che arrivi attraverso le sale con la proiezione commerciale di film di finzione – ma anche per come da sempre, ossia dai primi frammenti storici del cinematografo, esso riesca (meglio di qualsiasi altra stilizzazione) ad essere la voce dei sentimenti, delle pulsioni e dei processi del mondo popolare.
Quello di Claire Simon (presentato al 61° festival dei popoli) è un documentario che parla di se stesso – ossia il meta-documentario – e di esso in rapporto con i piccoli contesti, in tal caso col paese francese di Lussas, celebre sia per essere il luogo di un festival proprio di doc, sia come territorio di coltivazioni, in primis per la produzione del vino e per la raccolta delle castagne.
Il titolo diluito, farebbe stizzire (preliminarmente) anche lo spettatore più flessibile, eppure Le Fils de l’épicière, le Maire, le Village et le Monde è una pellicola affascinante e rigorosa, non solo per l’analisi sul rapporto tra il cinema del reale e la società rurale, ma anche per come in maniera dettagliata e oculata esso si soffermi sulla contrapposizione dualistica tra il vecchio e il nuovo, il passato e il futuro, tradizione e innovazione.
Mettere in relazione queste cose diviene un ossimoro ai limiti del sensato, ma nel film della Simon tali caratteristiche – in uno spazio delimitato – si intersecano e tentano una convivenza, per rendere quel mondo più dinamico possibile, così come il futuro delle prossime generazioni. Quel futuro – nel caso specifico – è la realizzazione di un progetto sia analogico, sia digitale: un moderno centro del documentario nel mezzo del paese, così da creare una scuola di scrittura, di produzione e di regia – da accompagnare al festival – ergo formare profili professionali; in secondo luogo, una piattaforma digitale on demand, per rendere disponibili i documentari prodotti o co-prodotti, ed altri dei quali sono stati acquisiti i diritti. Anche il documentario meriterebbe un Netflix costruito ad hoc.
La forza dell’opera non è solo il seguire – attraverso delicate fasi – la progettazione, la ricerca delle risorse finanziarie ed umane, il lavoro del gruppo di attivisti e di studiosi scandito da momenti positivi e negativi che si alternano in un work team, ma anche la relazione in superficie distaccata, bensì in profondità empatica, tra la comunità rurale ed eventi culturali come lo è un festival. Ciò è per lo spettatore fonte di curiosità e allo stesso tempo una rivelazione, perché in un’epoca come questa, la diffusione degli strumenti tecnologici e dei grandi centri globalizzati, mettono a serio rischio eventi culturali locali, i quali invece sono fisiologicamente essenziali per alcune realtà, perché essi possono divenire l’unico momento di svago, di unione, di cultura, di relazione umana tra i membri di una comunità, dedita al lavoro nei campi.
La stessa scelta delle inquadrature (perché anche il cinema del reale non può mai essere tale, dato che c’è inevitabilmente una scelta su cosa osservare da parte dell’autore) durante il minutaggio è un’alternanza tra contesto culturale e rurale, tra vita nell’arte e vita nei vigneti, tra evento culturale e relazione sociale quotidiana nelle strade. Ambivalenze, che tra panoramiche, carrellate e long-takes si incontrano e si scontrano, creando un’eterogeneità non solo nella visione del documentario, ma anche sul racconto di un luogo in superficie amorfo e apatico, e inoltre, sull’essenza della stessa Francia, come paese poliedrico, poiché padre della cultura, in primis del cinema (terra natia del cinematografo, nato ufficialmente nel 1895), e nazione celebre anche per il vino, per i frutteti, e per le coltivazioni di molteplici materie prime.
Le Fils de l’épicière, le Maire, le Village et le Monde è una pellicola di una regista matura, maestra di tale forma d’arte, e che come svariati autori nel corso della storia, si fa affascinare dallo stile della forma cinematografica preferita così tanto, da dedicarci un film (che è anche un omaggio al cinema in generale, perché nell’epilogo ad esempio, non si può non notare una comunanza scenica con una sequenza di 8 e mezzo di Fellini), con una narrazione oltremodo adatta per il format documentaristico (un film di finzione avrebbe avuto difficoltà a raffigurare le peculiarità e le differenti realtà di Lussas).
Il documentario, inoltre, scruta e immagina un villaggio-mondo, un microcosmo ove si intravede una società ibrida e armonica, che sarà disponibile a coloro che verranno (seguendo una frase di un film di Pierre Perrault citata in una scena. Tale aforisma, è presente tra l’altro anche in una struggente poesia di Bertolt Brecht), e che più di ogni altra cosa, rispecchi l’accennata natura variegata dell’antropologia francese.
- Diretto da: Claire Simon
- Durata: 111 minuti
- Paese: Francia