Cinema

#LaSceltaDiToronto. Zatoichi, di Takeshi Kitano

Cristina Lucarelli

Il People’s Choice Award del Toronto International Film Festival: 10 vincitori per raccontare le scelte del pubblico nel corso dei 36 anni di storia del TIFF.

Dalla laguna veneziana al freddo di Toronto la strada da percorrere ne parrebbe molta, eppure nel 2003, qualcuno venuto da ancor più lontano, da quell’oriente che stavolta si carica di folle violenza, nichilismo e a volte depravazione sessuale, vi arriva diretto mettendo a segno il suo ultimo colpo. Takeshi Kitano si presenta al pubblico del Toronto Film Festival con il medagliere appena rimpinguato dal Leone alla Miglior Regia e il premio del pubblico ottenuti al Festival di Venezia grazie all’ultima fatica, Zatoichi. In terra canadese gli va altrettanto bene e Kitano porta a casa il consenso popolare con il People’s Choice Award, senza considerare che la Miramax ha già garantito la distribuzione del suo undicesimo film negli Stati Uniti, America Latina e Australia.

 

Sempre con maggiore forza e coraggio, la cinematografia orientale ha portato dai primi anni 2000, varietà ed inventiva al di sopra della media e, piuttosto che con singoli episodi sporadici, l’ha fatto attraverso intere filmografie di una manciata di artisti di indiscusso valore di livello mondiale. Sud Corea, Giappone, Cina, Hong Kong ed altre nazioni hanno contribuito in ugual misura a pascere questi artisti, dando loro la possibilità di plasmare l’immagine di una cinematografia dell’estremo oriente policroma e complessa che raccoglie numerosi sostenitori e cultori anche qui in occidente: è sempre più vasto infatti il pubblico che si spinge oltre l’immaginario classico. Questi sono, appunto, gli anni in cui spiccano il volo artisti come Kim Ki-duk, Hayao Miyazaki, Zhang Yimou, Takeshi Kitano e il taiwanese Ang Lee che solo tre anni prima, dimostrando il crescente favore del pubblico verso le produzioni orientali, vinse anch’egli il People’s Choice Award di Toronto con la La tigre e il dragone.

Zatoichi è una pellicola di indubbia “kurosowaiana” memoria, rimarca sin da subito il suo valore commerciale e la sua appetibilità presso il grande pubblico, rivelandosi il più grande successo al botteghino del cineasta di Tokyo un po’ in tutto il mondo. 
Grazie ai racconti di Ken Shimozawa ed all’interpretazione dell’attore Shintaro Katsu, che lo ha incarnato in una lunga serie cinematografica e televisiva, a partire dal 1962 sino al 1989, Zatoichi è noto per essere un abile maestro nello stile iai, che prevede di impugnare la spada a rovescio.
Giocatore di dadi, oltre che massaggiatore, cela la propria arma all’interno del bastone da cieco.

Il cineasta giapponese, che spesso ha “sbeffeggiato” tale personaggio, spinto dalla produttrice televisiva – nonché amica e mecenate – Chieko Saito, ha preso questa figura della tradizione, ne ha mantenuto delle caratteristiche base e poi l’ha rinnovata: capigliatura platinata, il bastone-spada rosso e costumi rivisitati. Il mito del non vedente Zatoichi, samurai e spade, verità celate e ruoli destinati ad invertirsi un gioco pirandelliano fino alla verità ultima: Kitano non si risparmia e gioca pesante sul rapporto tra cecità e visione, rimarcando motivi cari alla sua filmografia, come l’infanzia negata, il sogno, l’allucinazione e il cammino verso la morte.

Un nipponico carosello teatrale che il regista serve in maniera cruenta – ma anche divertente – al grande pubblico, sottolineando il suo interesse più genuino: scoprire la verità nella follia, non certo nel realismo storico. Ed è il cinema stesso a permettere allo spettatore di “vedere” più di quanto possano fare gli occhi, sino ad esplodere nella risoluzione finale. Il regista si ammanta di blu e diventa anche protagonista, in una caratterizzazione del personaggio superlativa, ma anche i “cattivi” e il ronin sanno il fatto loro. La fotografia che omaggia Kurosawa, le musiche che accompagnano il carico emotivo di ogni sequenza, la spettacolarizzazione della morte, tra arti mozzati, sangue e iperrealismo pulp, realizzato attraverso una computer grafica immaginata per ridurre l’impatto sullo spettatore. Una sinfonia visionaria collocata in un universo dove il film di chambara è coreografato con spirito iconoclasta, dove i ciechi “sentono” meglio e gli occhi aperti non assicurano la vista e la comprensione delle cose. Con Zatoichi, il maestro giapponese porta a casa un altro trionfo e il massimo riconoscimento del Toronto International Film Festival, con una pellicola che fa scattare il pubblico in piedi per il plauso su uno di quei finali che resteranno per sempre nell’immaginario collettivo come un puro momento da cineteca.



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