#LaSceltaDiToronto. Roger & Me, di Michael Moore
Il People’s Choice Award del Toronto International Film Festival: 10 vincitori per raccontare le scelte del pubblico nel corso dei 36 anni di storia del TIFF.
Nel 2013 alla Biennale di Venezia Bernardo Bertolucci sorride, orgoglioso di sé, Gianfranco Rosi, uno dei migliori documentaristi italiani contemporanei, sale sul palco e agita verso l’alto il suo Leone d’Oro. Da quel momento la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dichiara il documentario un genere pari a qualunque altro. Molti il messaggio in Italia ancora devono reperirlo, lo scandalo per aver premiato un’opera che “non è un film” dilaga e la voce del dissenso è l’unica che accompagna il vincitore Sacro GRA.
Un lodevole tentativo, ma il documentario ha una storia di premi ben più lunga del Leone d’Oro, arrivato in ritardo, ma in un’epoca in cui ha ricevuto maggior fortuna sia di pubblico che di critica, basti pensare ad Oppenheimer ed il suo The Act of Killing, da molti considerato il miglior film del 2013. Tanta popolarità risale a dieci anni prima, quando un famoso documentarista statunitense curò un feroce attacco in versione filmica al suo stesso governo: quel regista è Michael Moore e vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes e il People’s Choice Award nel 2004 con Fahrenheit 9/11.
Nel 1989 Moore vinse un altro People’s Choice Award, l’omonimo massimo riconoscimento ottenibile al Toronto International Film Festival, con il suo primo film, girato nel giro di ben 4 anni per documentare il declino economico della sua città natale, Flint, nel Michigan, in seguito alla chiusura della fabbrica della General Motors per decisione del nuovo CEO Roger Smith. Il titolo dell’esordio di Moore è Roger & Me, un racconto che realizzato trent’anni prima lo avrebbe forse visto incarcerato in un angolo con l’accusa di essere una spia rossa, dalla parte del popolo e contro gli industriali che hanno reso grande gli Stati Uniti d’America.
Moore fu sin dall’inizio molto critico con il proprio governo, come dargli torto del resto, un democratico nato non solo in una famiglia, ma in una cittadina operaia, vissuto durante la presidenza Reagan, un uomo che incarnava l’ideale Repubblicano. Lui era ed è ancora oggi per la gente, contro la sfrenata cultura del capitalismo, a cui dedicò successivamente Capitalism: A Love Story, ed è grazie al suo talento di comunicatore, e ad una sopraffina arte del montaggio, che riuscì a far suo il favore del pubblico di Toronto con immagini di conigli scuoiati, famiglie sfrattate perché incapacitate a pagare l’affitto a causa dei licenziamenti selvaggi, tentativi ignobili di rivalutare un territorio condannato a morte spendendo denaro pubblico a vuoto.
La sua vittoria con Roger & Me deve essere arrivata inaspettata, una kermesse con tra i partecipanti Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, Il mio piede sinistro di Jim Sheridan – entrambi vincitori agli Oscar 1990 dove Moore non fu neanche candidato -, per non contare l’azione di John Woo e il suo The Killer, il debutto di Michael Haneke con The Seventh Continent e tanti altri grandi registi come Norman Jewison, Jane Campion, Peter Greenaway, Jim Jarmusch, Gus Van Sant, Bertrand Tavernier e così via. Tanto serve a dare un’idea dell’impatto avuto sul pubblico dal film di Moore, Roger & Me è un abile pugile armato di piuma e pugni, capace di strapparti una risata e subito dopo spingere lo spettatore a scoppiare in lacrime con la facile associazione di immagini di un Roger Smith e i suoi auguri natalizi e una famiglia sfrattata sotto Natale. Senza pietà.
In una simile epoca di cambiamenti, dopo tanti anni dal termine del secondo conflitto globale, il popolo chiamato a decidere chi sarà il vincitore non ha dubbi: chi è stato dalla sua parte, chi ha sottolineato gli errori e la cattiveria dei ricchi sempre più ricchi e l’innocenza dei poveri sempre più poveri merita quel premio. Moore ha coraggio, è sfacciato, si mette in gioco e non ha paura di far un uso a volte incontrollato dello humour nero, l’importante è far arrivare il messaggio senza tagliare il film. Bisogna avere le doti di un imbonitore e queste non sempre sono positive, ma Moore vince perché non inganna il pubblico, si siede fra di loro e si presenta immediatamente come un loro pari. L’empatia è il primo mezzo per conquistarsi l’amore degli acquirenti.
D’altronde la General Motors era solo una delle tante aziende a scoprire i piaceri della dislocazione in territori più economici, ad aprire fabbriche in Messico per pagare meno i propri dipendenti. Si può dire che pochi non avevano un parente colpito da una grande crisi, un amico a spasso per aiutare gli imprenditori ad arricchirsi. Lo sappiamo noi italiani, venuti a così stretta conoscenza col termine esodato o cassa integrazione, con la Fiat e molte altre compagne decise a conquistare altri lidi lasciando a bocca asciutta fedeli lavoratori al loro servizio, felicemente, per tanti anni. Una situazione che nella storia si è ripetuta ciclicamente e Moore questo lo sapeva, una carriera è stata eretta su queste fondamenta, ed è in tal modo che, senza interessi personali, vinse il People’s Choice Award a Toronto, un primo passo verso la fama e verso la sempre più alta considerazione per il Documentario con la ‘d’ maiuscola. La Biennale è solo uno dei tanti capitoli scritti in futuro.